Bérénice: Isabelle Huppert nella marea estetica di Castellucci

Bérénice (ph: Alex Maioli)
Bérénice (ph: Alex Maioli)

In prima nazionale a Fog (Triennale Milano) Racine al servizio della carismatica star francese. Due visioni a confronto

La solitudine maestosa di un’amante abbandonata. In Triennale a Milano per FOG, Festival di arti performative e danza, Romeo Castellucci rivisita “Bérénice” di Jean Racine. Il capolavoro secentesco in versi alessandrini del maggior tragediografo francese diventa monologo interpretato dalla star del cinema Isabelle Huppert.

Bérénice, regina di Palestina, sta per sposare Tito, figlio di Vespasiano, ma viene abbandonata secondo i dettami della ragion di stato: un calcolo opportunistico suggerisce all’imperatore romano di evitare le nozze con una donna straniera.

Una scenografia di veli e drappi affiora sotto la fuliggine sotto cui si affacciano i sovratitoli. C’è il rintocco martellante di una campana a morto, che diventa metronomo per questi alessandrini ossessivi e sbrindellati. C’è una donna malata di sconforto. Ci sono le vestigia di un’intimità domestica fuori tempo massimo cui aggrapparsi: un termosifone per scaldare la malinconia; una lavatrice per detergere una ferita che non accenna a rimarginarsi. Questa “Bérénice” è il naufragio in solitaria di un’amante disperata.

Nella scompaginazione e asciugatura del testo, Castellucci fa quasi tabula rasa dei personaggi maschili. Mette al centro un eterno femminino viscerale e squilibrato. Cheikh Kébé (Tito) e Giovanni Manzo (Antioco, altro spasimante della regina) non hanno accesso alla parola. Gli uomini amorevoli di “Bérénice” danzano, si affrontano, si allontanano. Il Senato è in velleitario fermento dietro quinte ovattate. Gli uomini restano inerti nella loro effimera nudità, sagome amorfe incapaci anche di macchinazione.

A tratti, dietro il sipario, un gruppo di personaggi, come ombre cinesi, si contorce al ritmo di una musica inquietante, metallica, che ricorda il ritmo sferragliante di un’acciaieria.

Con il procedere del dramma, Bérénice sprofonda in una sorta di autismo. La sua voce è alterata e sembra non appartenerle. Questa creatura inesplorabile vaga per la scena protetta dal velo che filtra la quarta parete. Si erige, cade. Si rialza, barcolla. Crolla, molla. Si ribella ancora. E sembra perire quando il sipario si riapre. Si guarda allo specchio. E allora scappa via gridando «Ne me regardez pas… non guardartemi…».

Paura e pudore. Nella stentorea grandezza solitaria, Bérénice è una regina esautorata e nuda. Ma quelle parole finali sono ambivalenti. Basta togliere la Z, e ne me regardez pas diventa “non mi riguarda”: quasi una rimozione salvifica.

Lo spettacolo s’insinua nelle zone d’ombra di Racine. Avvertiamo l’abisso nascosto e vicino. Dilapidiamo la nobiltà del testo per addentrarci negli angoli bui di uno psicodramma. In un abisso di caos e violenza prossima alla morte.

Una cascata di veli inonda la scena. Diventa macchia nera, inchiostro che esonda sul palco. Cancellando ogni residua fiducia in un amore che mai avvertiamo come possibile.

Il paesaggio sonoro elettronico di Scott Gibbons riproduce l’irrealtà dell’azione e una pesante atmosfera. Isabelle Huppert affronta il destino della sua eroina sul filo di un’interpretazione tra rabbia e singhiozzi. Ma a volte sembra affondare in questa immensità: la solitudine non è facile da fronteggiare nelle tragedie di Racine.

Notevoli i costumi della stilista Iris Van Herpen: un abito da principessa quando l’amore poteva ancora essere salvato; un abito fatto in casa per lavare la disperazione; soprattutto l’ultima veste, una dalia rossa che appassisce e finisce per sfaldarsi.

Di questo lavoro di Castellucci apprezziamo l’estetica da Sindrome di Stendhal. Viene però resettata la complessità del testo, e se ne perdono le emozioni caleidoscopiche. Si frammentano i versi alessandrini, biascicati da questa dea inattingibile che oscilla tra immaterialità e spigolosità accesa, urlante, a volte urtante.

La forma divora il contenuto. Lo spreme come un’arancia; ne rivela i semi straziati e la polpa sfatta. Affiorano in superficie le cicatrici. In scena assistiamo al grido disperato di una donna sedotta e abbandonata, ancora tragicamente innamorata, ma in fondo la controfigura di uno stereotipo.

Scandalo e fascino. Questa Bérénice immortalata nel suo disincanto in Triennale, riceve il generoso applauso di un pubblico che oltrepassa l’ermetismo, abbraccia Castellucci di cui ha assorbito per mitridatizzazione lo stile, celebra un’attrice in ogni caso monumentale. Isabelle Huppert, anche nella sua recitazione sostanzialmente monocorde, anche nelle linee amplificate e distorte al punto da diventare incomprensibili, libera un’energia dirompente.

Alla fine colpisce proprio per questo: tutto è congelato, paralizzato, impedito. Ma la sua bellezza maestosa e atemporale, a metà tra cinema e teatro, sul crinale fra epifania e maledizione, è un cristallo luminoso. Capace di abbacinare lo spettatore.

Lo spettacolo riprenderà la tournée in autunno partendo da Lugano (29 e 30 settembre), per raggiungere Napoli (Teatro Nazionale 24-26 gennaio 2025) dopo aver toccato Lussemburgo, Spagna, Belgio e Francia.

(Vincenzo Sardelli)

Visto a Milano, Triennale Teatro, l’8 aprile 2024
Prima nazionale

 

 


Ph: Jean Michel Blasco
Ph: Jean Michel Blasco

L’approccio drammaturgico con una pietra miliare della cultura francese come Racine muove i suoi passi da un cosciente fallimento. Quello ottenuto, ad esempio, da Höderlin, da Alfieri, ma anche da diversi altri notevolissimi letterati e scrittori di scena che tanto si sono spesi nel riesumare, o meglio rendere nuovamente attuale, senza riuscirci, la tragedia.

Impossibile coniugare due culture tanto distanti come quella greca e quella cristiana, ipotesi che stava molto a cuore a Racine (anch’egli fallito nell’intento): “Un’operazione inattuabile perché se esistesse un al di là, non vi sarebbe la tragedia” afferma lo stesso Romeo Castellucci.

L’anacronismo della lingua, della retorica classica, della teologia del drammaturgo sono gli aspetti che catturano l’interesse del regista di Cesena: in sintesi, l’inattualità dell’opera e del suo autore. Una presa di distanza lucida, un percorso obbligato di distanziamento per ritrovare, fuori da sé, un’identità.

A ben pensare si tratta di compiere un atto coraggioso nel cercare di vedere meglio la linea tracciata proprio allontanandosi da essa. E’ anche quello più logico e naturale, molto simile al movimento che si compie per osservare meglio un’opera complessa e di grandi dimensioni. Allontanarsi per avvicinarsi di più.

Non abbiamo ancora raggiunto il nostro posto in sala che una nebbia, piuttosto densa nel colore e nell’odore intenso, ci accompagna. Un guanto rarefatto che sconfina dal palco per abbracciare i corridoi e gli altri spazi, diventando un “filtro” che diventa elemento caratterizzante. La suggestione, visiva e olfattiva perdura, quasi immutata, per tutta la performance, isolando i personaggi ed evidenziandone inequivocabilmente l’estrema solitudine, tanto che la protagonista viene presentata come un vero e proprio inno disperante all’essere per sempre soli.
Un isolamento che un velo semi trasparente (installato in proscenio sull’intero boccascena dietro al quale si svolge l’azione) contribuisce a rendere tangibile anche nei confronti del pubblico. Lo spettatore è affaticato dal costante offuscamento che rende complessa la lettura dei sovratitoli, avvertendo senza interruzione la presenza ingombrante di questa moderna quarta parete.
Una performance che trova nella radicalità la sua definizione migliore.

Castellucci preferisce l’ombra alla luce, la profondità della psiche con i suoi drammi irrisolti, i lati oscuri e contraddittori del non visibile.
E’ in questa direzione che diventa fondante l’impiego dello “strumento” Isabelle Huppert nell’interpretazione di Bérénice per esprimere l’essenza del teatro.
La straordinaria interprete francese è qui assoluta protagonista di un monologo ininterrotto, cucito su misura e direttrice d’orchestra di sé stessa, ma anche dell’impianto scenico che le ruota intorno.
I versi alessandrini rimati con i quali Bérénice lamenta la sua condizione di abbandono vengono resi quotidiani da un eloquio che sottrae, senza caricare di ulteriore forma. L’espressione viene volutamente distorta attraverso l’impiego di escamotage nelle modulazioni vocali con il preciso intento di celare, ingannare, fino a distruggere ogni possibile via comunicativa.
Apparentemente Bérénice-Huppert è il punto fisso immutabile, l’ordine al centro della scena attorno al quale tutto è in disordine costante. In realtà quello a cui assistiamo è la deriva dei suoi pensieri, un crescendo di angoscia e allo stesso tempo di presa di consapevolezza rispetto ad un destino sempre più probabile e lontano da una ricostruzione storica dei fatti.

Mentre la sua parte è lasciata integralmente intatta, le altre figure diventano presenze inconsistenti e superficiali.
E’ così per Tito e Antioco, impersonati dai danzatori Cheikh Kébé e Giovanni Manzo, che attraverso azioni performative rimandano ad una lontana definizione dei rispettivi personaggi. I senatori diventano un coro uniforme di nove uomini togati che tendono ad abitare lo sfondo della scena mentre è, ad esempio, assente il “pressing” che Racine fa compiere loro per convincere il sovrano a liberarsi di lei.
Non esiste relazione con Bérénice, costretta invece a trovare in qualche oggetto del nostro quotidiano un possibile interlocutore.
E’ così che Tito diventa un calorifero al quale rivolgersi abbracciata, probabilmente per cercare con l’ironia quel calore umano che tarda ad arrivare. Viene calata dall’alto anche una lavatrice, altro elemento che rimanda alla quotidianità del focolare domestico ormai danneggiato. L’elettrodomestico restituisce infatti un lungo drappo inesorabilmente marchiato da un rosso sangue indelebile.

L’emozione cardine sulla quale la regia costruisce con minuzia il personaggio è però il dubbio. Quel sentimento impressole senza via di scampo da Antioco rispetto alla possibile intenzione dell’imperatore Tito di abbandonarla. Un’ansia condita dall’assenza di contraddittorio. Il palco è essenzialmente vuoto. Soltanto tre enormi metronomi scandiscono il tempo, agitando i drappi fastosi che delimitano il perimetro della scena, enfatizzati dalle preziose musiche originali di Scott Gibbons che riescono a catturare tutto ciò che sfugge alla lingua parlata.

Persiste una sorta di controllo che la Huppert impone al personaggio e la regia alla scena, come un’automobile accelerata tenuta nello stesso tempo immobile dall’inserimento del freno.

Il controllo si disinserisce alla fine, quando finalmente il velo si sottrae e Bérénice, cambiata d’abito, si mostra senza filtro ai nostri sguardi dando vita ad un inatteso quanto efficace momento conclusivo.

(Davide Sannia)

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 4′ 13”

Visto a Milano, Triennale Teatro, il 5 aprile 2024
Prima nazionale

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