La Biennale di Marie Chouinard: la danza come atto politico

Dana Michel in Yellow Towel (photo: Ian Douglas)
Dana Michel in Yellow Towel (photo: Ian Douglas)

“La danza è un’arte viva e le sue opere rischiano di scomparire se non vengono rappresentate – garantire loro una vita che superi i primi passi diventa allora un atto politico”.
Lo scrive Marie Chouinard, neodirettrice della Biennale Danza di Venezia, nella pagina d’apertura del catalogo del festival 2017. In questo suo “Capitolo primo”, come ha voluto sottotitolare questa edizione, la coreografa canadese ha abbracciato la tradizione, sedimentata dal precedente direttore artistico Virgilio Sieni, di portare la danza nel cuore della città, all’aperto, in Campo Sant’Agnese, “come un lampo di poesia spontanea recitata dal corpo che si dona”. Purtroppo però anche la più bella delle poesie, all’infelice ora del mezzodì, quando il sole cade a picco in campi e campielli, mette a dura prova sia i danzatori che la volontà del pubblico.

Invece, altra bella novità introdotta quest’anno, accanto ai meeting, e al percorso di formazione per coreografi, è stata senz’altro la visione di film e docu-film di alcuni degli artisti ospiti. Per citarne qualcuno: “The Co(te)lette Film”, adattamento del lavoro scenico di Ann Van Den Broek, filmato dal regista britannico Mike Figgis: un vero pugno sullo stomaco per la violenza e brutalità autolesionista che le tre danzatrici protagoniste, colte da una sorta di delirante rapimento estatico, compiono sui loro corpi in un’arena/ring sotto lo sguardo apatico di una pubblico borghese; o il docu-film sul percorso creativo di “Aurora” di Alessandro Sciarroni, suo anche il film “Your Girl”, e tra l’altro Sciarroni è stato l’unico danzatore italiano in programma con tre dei suoi lavori (“Chroma”, “Aurora” e “Folk-s”); o ancora il filmato spettacolare e indimenticabile di “Le Sacre du printemps” della stessa Chouinard, di una bellezza e potenza sopraffine, che nulla ha da temere nel confronto con le storiche versioni.

Vale la pena dire qualcosa di più anche sulla nuova direttrice Marie Chouinard, prima coreografa canadese a rivestire il ruolo di direttrice della Biennale (prima di lei solo l’americana Carolin Carlson aveva avuto il mandato, nel 1999 e per lo stesso periodo di tempo, e tra gli ospiti aveva scelto anche la Chouinard).
Incarico confermato e accettato con gioia solo lo scorso settembre, quindi non così tanto in anticipo per programmare un evento internazionale, come del resto vuole il “copione” di questi tempi (se n’è parlato anche in ambito teatrale nel caso Punzo/Volterra): “Il poco tempo a disposizione richiedeva immediatezza, e così sono andata a ricercare nella memoria quegli artisti e spettacoli che mi avevano preso il cuore”.
Lunghi capelli biondo oro, sciolti o raccolti senza troppe sofisticherie, senza trucco e sempre sorridente nonostante la tensione e il nervosismo. Marie Chouinard è stata una bella sorpresa, dimostrando una grande generosità che ha emozionato il pubblico, in particolar modo durante l’incontro pomeridiano a lei dedicato, durante il quale non ha rinunciato a voler parlare in italiano, pur nella difficoltà di non saperlo ancora del tutto bene.

Una personalità forte, istintiva, ma condita anche da sincera spontaneità e una buona dose di verve comica, unita alla capacità comunicativa di chi nella vita mette in gioco cuore, spirito e corpo, trasmettendo la gioia della danza, e anche della vita stessa, quando parlando di stelle, galassie e atomi arriva a commuoversi davanti a tutti per l’improvviso ricordo di un cielo stellato visto in compagnia del padre.
Di fronte al pubblico non ha nascosto nemmeno le preoccupazioni incontrate durante il processo creativo delle sue opere. Come nella realizzazione de “Le Sacre du printemps”, in cui per la prima volta si è dovuta misurare con la musica – quella di Igor Stravinsky – che solitamente nei suoi lavori arriva solo alla fine, nella fase di montaggio della coreografia: “E’ stata una lotta con me stessa e con la musica, perché la musica ti schiaccia se non hai un’idea forte”.

Ma in Biennale è arrivato anche il suo lato fermo, deciso e orgoglioso, quando ha dichiarato di non aver bisogno di pretesti per creare le proprie opere, perché ha l’ispirazione in sé, o quando ha affermato che le sue coreografie non nascono dall’improvvisazione ma da un sistema. E ancora, quando qualcuno nel pubblico, dopo aver visto “Soft Virtuosity, still humid, on the edge”, le ha chiesto spiegazioni sulla scelta di inserire nella coreografia storpiature e deformazioni del corpo (i danzatori entrano in scena e attraversano ripetutamente il palco zoppicando, strisciando, deformando i loro visi e corpi), e lei ha risposto: “Quella è bellezza! L’altro giorno mi sono fermata a guardare un signore tutto curvo che camminava per Venezia, e la curva del suo corpo era la bellezza dell’umanità, della nostra storia personale, della nostra comunità”.
Ed ecco, in maniera resa ancora più esplicita, perché le sue opere sono un’eruzione di energia vulcanica, primordiale, catartica, ricca di passione sessuale e sensuale, materia nervosa ed elettrica, che la Chouinard aiuta a sprigionare fuori da corpo, respiro e ogni singolo movimento del danzatore.

Dalla freddezza con cui è stato accolto lo spettacolo, e dai commenti all’uscita dalla sala, alimentati da una conversazione post-spettacolo piuttosto deludente dal punto di vista dei contenuti, ciò che invece ha lasciato più di qualche perplessità è stato il Leone D’Argento di quest’anno, Dana Michel (al Leone d’Oro Lucinda Childs abbiamo già dedicato la nostra “prima puntata” da questa Biennale).
L’anno scorso Sieni aveva ritenuto opportuno non consegnarlo a nessuno, quest’anno invece Marie Chouinard ha scelto di conferirlo alla giovane canadese Dana Michel, che ha all’attivo soltanto un paio di lavori.
In Biennale la coreografa di origini caraibiche ha portato “Yellow Towel”, che trova il suo pretesto creativo nell’abitudine che la giovane aveva da bambina di avvolgersi la testa con un asciugamano giallo nel tentativo di farsi bionda e diventare un’ altra.

In questo lavoro, la Michel entra in scena avvolta in un involucro di vestiti neri che la fanno sembrare un clochard: borbotta, canticchia, dialoga tra sé e sé, non sempre in modo comprensibile, sgranocchia, ingurgita cibo mentre un po’ alla volta si sveste fino a rimanere in t-shirt e calzamaglia gialla. Nel mentre manipola i più svariati oggetti come può fare un bambino, o come chi non ha più la conoscenza semantica di ciò che afferra con le mani, e che quindi può destinare agli usi più svariati. Il suo sguardo si perde in silenzi, sembra rimanere inebetito dai racconti della propria voce, incantato dagli oggetti che lei stessa ha nascosto e scotchettato qui e lì, mentre nuovamente e lentamente ricompone il suo involucro nero.
Di primo acchito forse a qualcuno sarà tornato in mente “Backpack” di Francesca Foscarini, presentato lo scorso anno proprio in Biennale, o più semplicemente la dimostrazione del workshop intitolato “That choreographs Us” realizzata dai 15 danzatori della Biennale College con Benoit Lachambre.

“Yellow Towel” rientra in quell’ampio ombrello che chiamiamo performance, e che la ricerca individuale ha portato a proliferare in modi diversi, spesso antitetici, spingendo sempre più alla pratica della danza-teatro e della non-danza o Sdanza come piace chiamarla a Elisa Guzzo Vaccarino, che ha curato i meeting durante questa Biennale.
I giovani danzatori, spesso anche coreografi e autori dei propri lavori (non potrebbe essere da un lato una conseguenza ma anche la causa di una certa fragilità? La “giusta distanza” non aiuta a volte a essere meno autoreferenziali?) hanno quasi del tutto abbandonato l’opera a favore della più breve performance, che troppo spesso risulta un contenitore distratto e provvisorio di “cose, pezzi, frammenti instabili”. Questo può rispondere a un’esigenza intimista del danzatore, ma spesso per lo spettatore diventa eccessivamente instabile, provvisoria, sfuggente e precaria.
Se la comunicazione socialmediatica odierna è fatta di attimi, interruzioni, slittamenti, pause, non è che il pubblico (fragile a sua volta) necessiti anche di una certa organicità, di qualcosa di meno aleatorio? Di album di ricordi personali, per quanto strampalati o concettuali, pieni di ironia o serietà, ne abbiano forse già la memoria piena.
Pur confidando nella lungimiranza della scelta della Chouinard (lo spettacolo ha ricevuto ampi riconoscimenti dalla critica americana) preferisco pensarla come la Childs, quando sempre in controtendenza afferma: “La danza di oggi mi pare si avvicini al vocabolario del teatro. A me invece ora fa piacere tornare nei territori del classico”.

Tornando infine alla fragilità della danza di cui si parlava nella prima parte del nostro reportage dalla Biennale, durante il festival il riferimento andava anche alla mancanza di attenzione che il nostro bel Paese ha nei confronti di tutta la danza: “L’Italia deve amare di più i suoi danzatori e coreografi” aveva detto con veemenza la Chouinard in conferenza stampa.
Lo ha denunciato, solo qualche giorno fa, anche l’étoile Roberto Bolle in un’intervista di Anna Bandettini a Repubblica: “In Italia la danza è ignorata e maltrattata”, facendo riferimento alla progressiva chiusura dei corpi di ballo delle fondazioni liriche avvenuta a Firenze, al Maggio, all’Arena di Verona e prima ancora a Bologna, Venezia e Torino. “Non c’è nessun impegno per tenere in vita queste realtà, ma così facendo da noi si uccide la danza”.
La stessa Lucinda Childs lo ha ricordato, riportando il problema in un contesto più esteso nello spazio e nel tempo: “La danza è sempre stata la forma d’arte più fragile, è sempre stato difficile…”, ma con la grinta sottesa alla dolcezza del suo viso (che le fa volere al suo fianco solo quei danzatori che sanno costruirsi nella forza fisica e spirituale per andare avanti) ha concluso ricordando che pure: “Lo spirito dei danzatori è sempre stato quello di non fermarsi”.

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