Il testo è quello dell’“Ulisse” di Joyce, ma in “Bloom’s day” la successione di scene viene scandita da una narrazione che ne seleziona dei frammenti, a comporre una arbitraria e personale interpretazione.
Ne è artefice Claudio Collovà, palermitano, attore, regista, docente, traduttore, scrittore, fondatore della compagnia di ricerca e sperimentazione Officine Ouragan e direttore artistico delle Orestiadi di Gibellina dal 2010.
Le parole di Bloom sono le medesime del romanzo, anche i suoi pensieri. L’uomo si aggira in una scena spoglia, una musica reiterata riempie l’aria, un suono metallico e straniante che enfatizza l’immobile e imponente presenza di un letto di morte ad accogliere la moglie Molly, un’Ophelia vestita di bianco, coperta di fiori, in una bara che diventa tavolo su cui consumare avidamente colazioni e cene.
L’epopea umana di Leopold Bloom, ebreo irlandese, piccolo borghese, impegnato a tradire la moglie Molly da cui è tradito a sua volta, viene tratteggiato così dal regista Collovà, che più volte si è confrontato col romanzo di Joyce.
Lo spettacolo è arrivato nelle scorse settimane a Messina, al teatro Savio, proposto all’interno della terza stagione di Atto Unico, fatica artistica e produttiva organizzata dalla Compagnia QAProduzioni, diretta dalla drammaturga e regista Auretta Sterrantino. E del giorno di Bloom, di come la sua epopea umana è stata proposta in forma monologante, parliamo col regista palermitano, la cui poetica, principalmente legata alla pittura, alla fotografia e alla fisicità dell’attore, si incrocia spesso con la danza e trae origine da fonti di ispirazione non solo teatrali. Una riflessione ad ampio raggio, per approfondire le dinamiche legate alla produzione teatrale di un autore i cui lavori sono stati presentati in festival internazionali di teatro in Italia e in Europa, e conoscere, più in generale i progetti artistici in cantiere.
Come nasce “Bloom’s Day” e in che punto si colloca nel tuo percorso di ricerca sull’Ulisse di Joyce?
“Bloom’s day” fa parte dell’Ulyssage # 4, il mio quarto lavoro sull’Ulisse, presentato come una trilogia prodotta dal Teatro Argot di Roma. Negli anni dal 2010 al 2014 ho lavorato a cinque differenti spettacoli su Joyce e sul suo capolavoro. Il secondo di questi, “Artista da giovane”, è stato invece un lavoro che ha riguardato il romanzo “Portrait of an Artist as a Young Man”, che può essere considerato la premessa dell’Ulisse.
Il monologo di Bloom non riguarda solo uno dei capitoli, ma è un viaggio che tocca, oltre la Colazione, anche altri episodi, in un montaggio arbitrario di un flusso interiore che cita molte tappe del suo errare per Dublino.
Fin dall’inizio il mio lavoro è stato concepito come un percorso lento e non superficiale, e ogni spettacolo ha presentato di volta in volta soltanto alcuni aspetti, senza avere mai l’ambizione di essere esaustivo. Devo molto a Pietro Carriglio, che ha creduto in questo mio progetto e lo ha condiviso anche nel suo itinerario. Detto questo, ogni spettacolo è autonomo e indipendente e tutti costituiscono un sorta di corpus teatrale che un giorno magari sarebbe importante ed emozionante presentare per intero.
La forza della messa in scena si condensa attorno al suo protagonista, l’attore Sergio Basile, intenso e raffinato nel suo fluire monologante. Come avete lavorato?
Sergio Basile è un attore straordinario con cui per certi versi è molto semplice lavorare. La materia che gli ho presentato era molto complessa e consistente. Quando ci siamo messi al lavoro e la parola ha iniziato a diventare azione, la drammaturgia ha attraversato moltissime trasformazioni, grazie anche alle sue preziose sensazioni in scena. Essendo in due (ma non dimenticherei le luci di Pietro Sperduti, la scena di Enzo Venezia, le musiche di Giuseppe Rizzo, altri miei compagni di viaggio) la collaborazione è stata intensa e soprattutto vera. Sergio è un attore molto disponibile e di grande apertura mentale, e sebbene la sua esperienza possa essere definita grande e profonda, avendo egli lavorato con moltissimi grandi registi della scena italiana, non ho mai avuto resistenze al rischio e alla sperimentazione. Ho parlato spesso della pittura e della dimensione pittorica del corpo sulla scena, e questo grado di percezione figurale è stato possibile anche grazie alla sua assoluta disposizione a certe suggestioni non convenzionali. Così spesso non è stata solo la parola di Joyce a guidarci ma anche il valore che noi abbiamo attribuito ai silenzi e ai paesaggi mentali di Joyce.
E adesso un nuovo spettacolo, a partire dall’”Horcynus Orca”, romanzo dello scrittore messinese Stefano D’Arrigo, con Giovanni Calcagno, Manuela Mandracchia e Vincenzo Pirrotta. Una produzione del Teatro Biondo di Palermo, diretto da Roberto Alajmo, che ha debuttato proprio giovedì sera. Un romanzo straordinariamente complesso, denso di significati…
Ormai al debutto mi è finalmente chiaro tutto ciò che si è creato intorno a me, a prescindere dalla mia volontà. Mi piace molto non volere, credo che sia la condizione che più di altre mi aiuta a perdermi in una nebbia molto importante: da sempre cerco di modificare le cose mentre esse avvengono e il flusso mi aiuta a non essere troppo decisionista sulle cose. Ci sono troppe componenti che prescindono da me e che devono essere ascoltate.
Adesso la forma del mio lavoro sull’Horcynus mi appare chiara, dopo una lotta che è durata tantissimo in certi suoi aspetti e sorprendentemente molto poco per certi altri. Intanto vorrei davvero spazzare via ogni equivoco: il mio lavoro non è assolutamente la trasposizione in teatro di un romanzo così complesso, lungo e ricco. Ho concentrato la mia attenzione solo su tre momenti che riguardano la Sacra Famiglia, e cioè ‘Ndrja figlio, Caitanello padre e Ciccina Circè, che è possibile collegare alla madre ancestrale di ‘Ndrja, ma c’è in questo lavoro anche l’episodio dell’incontro tra Caitanello e il fantasma dell’Acitana, madre naturale di ‘Ndrja.
Sono tre cantiche, e così potrebbero essere definite con allusione alla Divina Commedia.
La prima cantica, “Il transito” che ‘Ndrja compie sulla barca di Ciccina Circè, può essere definita come esperienza infernale di attraversamento; il “Ricongiungimeno”, cioè l’incontro con il padre, come il purgatorio del romanzo, mentre la simbologia dell’Orca e il suo ‘scodamento’ insieme alla morte del protagonista, sembrano avere a che fare con il paradiso della poesia. Quest’ultima cantica è intitolata ‘La morte’.
Così ho voluto presentare questi tre episodi, che hanno cesure tra di loro anche grazie a un video che racconta la morte per acqua e riportando i titoli, come si fa in un romanzo dell’Ottocento. Non presento nessuna continuità narrativa tra episodi e rispetto solo l’ordine degli avvenimenti.
Quali sono le suggestioni emerse?
Ci sarebbe molto da dire sulla bellissima lingua di D’Arrigo, visionaria e al tempo stesso molto concreta e teatrale, che ho voluto mantenere come lingua italiana, aiutando a definire la materia come materia non letteraria in tutte le sue componenti, e mantenendo l’azione che essa ispira, rendendo immaginifico ma non astratto ciò che avviene. Ho cercato inoltre di non rappresentare l’aspetto figurativo del romanzo, ma ho voluto concentrarmi sulle esistenze di questi protagonisti. Lo spettacolo si apre tra l’altro con una scena per me molto significativa che si chiama “Lo spiaggiatore” in cui si insegna a ‘Ndrja come vedere la realtà. Con gli occhi della mente, dice, suggerendo a tutti gli spettatori e lettori di abbandonarsi a un viaggio sensoriale e non solo del logos. Imparare a vedere, dice Rilke.
Qual è stato il lavoro per adattarlo a testo teatrale?
Non credo di avere adattato il romanzo: le parole sono di D’Arrigo, io ho scelto la materia tra la tanta materia, e spero che non ci siano aspettative legate a come lo si immagina da lettori esperti. E’ la mia visione, ma ce ne sono tante possibili. Devo molto agli attori, come spesso succede, e a tutti gli artisti che hanno preso parte a questo progetto, che spero non venga mai definito ambizioso. Come l’Ulisse di Joyce, anche questo enorme romanzo della letteratura europea si porta dietro pesanti pregiudizi, soprattutto da parte dei non lettori. E’ stato poco letto, ma se mi guardo in giro non mi stupisco poi tanto che simili capolavori finiscano nell’oblio. Lieto se posso fare qualcosa di nobile per un romanzo meraviglioso. Spero possa essere accettato anche dai cultori dell’Horcynus Orca.
E poi ci sono le Orestiadi di Gibellina, festival fondato dal senatore Ludovico Corrao. Quale l’idea alla base del festival, che vive in uno spazio dove le cicatrici di un sisma devastante si fondono alla voglia di rinascita a partire dalle arti?
Il festival delle Orestiadi nel 2016 presenterà al pubblico la sua XXXV edizione. Un viaggio che è iniziato nel 1982 e, senza interruzioni, è arrivato fino ad oggi. Noi che oggi lavoriamo qui, custodi di questa felice intuizione, eravamo giovani quando per la prima volta assistemmo alle rappresentazioni. Questo luogo è stato abitato da centinaia di artisti, registi, compositori, scenografi, costumisti, attori, chiamati qui a creare e realizzare opere che fossero in forte connessione con il mito e la storia di un popolo che a partire dalla notte del 15 gennaio del 1968 fu testimone e vittima di violentissime scosse di terremoto.
La dimensione immaginaria del teatro comincia da qui, da una immane tragedia, e ha lasciato segni tangibili nella ricostruzione dei decenni successivi, fino ad oggi.
Il teatro a Gibellina ha sempre svolto un ruolo e una funzione più complessa di quella del semplice evento teatrale, facendo leva sulla memoria collettiva e su quella storica. E’ stata la risposta, direi immediata di Ludovico Corrao, al dramma, per trasformare la tragedia in speranza. Non una semplice ricostruzione di case, ma un progetto più grande che rasentava allora l’utopia: affidare al teatro e agli artisti il passaggio, la trasformazione, la restituzione di un sogno a una popolazione annichilita dal dolore, e offrire ad essa una nuova realtà in cui credere, grazie a un coinvolgimento attivo che ha prodotto lavoro e socialità.
La sfida fu quella di restare a Gibellina contro ogni speranza; ridare la speranza fu dunque fondamentale per resistere. E Gibellina è divenuta simbolo dell’operare attraverso l’arte. Questo fu il pensiero dell’allora sindaco e fondatore delle Orestiadi, che chiamò a raccolta gli artisti per rifondare la città distrutta attraverso il valore etico del teatro e dell’arte in genere. Gli spettacoli prodotti e rappresentati qui sono stati tantissimi, e costituiscono un cospicuo patrimonio non effimero, la cui densità è ancora oggi presente.
È sempre più evidente e lampante la crisi, ormai cronicizzata, degli Stabili in Sicilia: da Catania, a Palermo passando per Messina. Quale pensi possa essere la via da intraprendere per svecchiare e mutare la rotta di un sistema che appare ormai non più sostenibile?
A mio parere occorre che la politica assuma come atto irrevocabile la responsabilità dell’impegno nei confronti delle Fondazioni pubbliche e dei teatri pubblici. Non c’è nessuna bacchetta magica finché dura l’incertezza dei finanziamenti e la loro tempistica.
La politica o ingerisce o è assente e distratta. Nessuna di queste due posizioni è ammissibile. Sono soci fondatori e allora si comportino da soci fondatori, proteggendo l’operato dei direttori artistici. Purtroppo le risorse diminuiscono, i soldi sono spesi male e si scoprono anche mancanze e ruberie.
I lavoratori sono troppi? Non è sicuramente colpa loro, oggi, se l’organico è sopravvalutato nel numero. Occorre mettere mano a trasferimenti, prepensionamenti e anche riqualificazione del personale organizzativo, tecnico e amministrativo.
Bisogna essere severi ma giusti, senza danneggiare nessuno, ma dicendo anche che la difesa ad oltranza del sistema sta solo portando alla catastrofe. Bisogna svecchiare anche il nuovo o presunto tale, creare solidi rapporti con il territorio, con tutte le istituzioni culturali della città e della regione, e dell’intero paese. Inoltre occorre proteggere e difendere le produzioni, renderle visibili. La visibilità, per noi che viviamo e lavoriamo in Sicilia, è molto importante se non vogliamo aumentare la distanza ancora di più. E poi penso che sia necessario un confronto vero con l’Europa e i suoi artisti, e smetterla di pensare di essere autosufficienti dal punto di vista culturale.
Dici bene, quel sistema di prima non serve più, non solo perché non ci sono soldi, ma soprattutto perché è diventato povero, non ha immaginazione ed è spesso molto presuntuoso e irresponsabile.
BLOOM’S DAY
dall’Ulisse di James Joyce
uno spettacolo di Claudio Collovà
con Sergio Basile (Leopold Bloom)
scene e costumi Enzo Venezia
realizzazione artistica Giusy Giacalone
musiche Giuseppe Rizzo
luci Pietro Sperduti
video Francesco Murana
tecnico luci e fonico Edoardo Maria Basile
una produzione Teatro Argot Roma
Visto a Messina, Teatro Savio, il 3 aprile 2016