Borborygmus. Il rumore delle nostre vite? Un borborigmo

Borborygmus a Centrale Fies (ph: Alessandro Sala)
Borborygmus a Centrale Fies (ph: Alessandro Sala)

Alla Centrale Fies di Dro Lina Majdalanie, Mazen Kerbaj e Rabih Mroué per Live Works

I suoni che si percepiscono a Centrale Fies mutano dal gorgoglio del fiume Sarca ai timbri elettronici degli psichedelici dj set, dal mutismo verticale delle montagne trentine alle lingue dei più vari paesi e continenti. La varietà del pubblico e di artisti che vi affluisce assembla una Babele in cui è piacevole immergersi e lasciarsi contaminare: un magma che ricompatta il suo flusso ordinato e rispettoso quando penetra nelle sale teatrali ed attende il disvelamento di come uno sperimentalismo decisamente accentuato possa coniugarsi al rigore formale e concettuale, distillando il processo creativo in risultati di raffinata qualità. E’ questa la comune marca stilistica delle proposte che si assaporano a Dro.

Il rigore – sia nella costruzione drammaturgica che scenografica – e la ricerca – in particolare sul labile confine tra suono e parola – sono cifra distintiva anche di “Borborygmus”, opera del 2019, già passata nel 2021 al Festival delle Colline Torinesi e inserita nella seconda giornata del “fuori formato festival” di Dro. Infatti, nella vetrina dei Live Works con cui Centrale Fies esibisce i risultati del proprio scouting e delle residenze dei talenti affidati alla curatela della crew, si inseriscono ogni giorno degli special guests, selezionati come maestri di riferimento per gli fellows ed alumni.

In questo ruolo, un collettivo d’eccezione ha fatto da padrino alle notti di Dro, proponendosi come un moderno Sherazade che abita a Berlino, proviene da Beirut ed ibrida culture e percorsi tra codici espressivi diversi. Nel gruppo, il nome più noto in Italia è Rabih Mroué, emerso sulla scena internazionale negli anni Novanta e a cui in questi giorni la rivista Stratagemmi ha dedicato il terzo volume della serie Act?.
Insieme a lui, Lina Majdalanie e Mazen Kerbaj. Tutti nati in Libano tra gli anni Sessanta e Settanta, poco prima della guerra civile detonata tra il 1975 e il 1990; tutti rifugiati in Europa e protagonisti di un percorso artistico individuale in rilievo e trasversale fra teatro, visual art, musica.

Il trauma che accomuna i tre artisti e il loro Paese è senz’altro uno degli apporti genetici dello spettacolo, ma esso viene incorporato e superato in un risultato che si distacca dal documentarismo d’impronta civile e strettamente biografico e porta in scena il suono dell’esistenza di tutti noi.

E’ proprio il suono ad essere trattato con maggior originalità e pregnanza evocativa in questo spettacolo recitato in arabo, lingua a prevalenza consonantica, con fonemi velari ed aspirati che si amalgamano in un impasto sonoro marcatamente corporeo. La qualità estetica di questa lingua, fascinosa per la sua radicale alterità e complessità, è resa più magnetica dalla ricerca espressiva condotta in scena verso una sottile cantabilità, che richiama il salmodiare mussulmano e si adatta a melodie molto distanti, come la musica orchestrale.
A ciò si sovrappone un’interazione coi rumori catturati dal vivo e amplificati con microfoni in mano agli stessi attori, che diventano servi di scena di cose a cui è affidato un secondo dettato.

Delle “Mille e una notte” lo spettacolo richiama la costruzione ad innesto: sono una decina le sequenze in cui potrebbe essere scandito, ciascuna generata dalla precedente e ciascuna a sua volta generatrice della successiva.
La scena si presenta spoglia e nitida: un tavolo centrale a cui sono già seduti gli autori, tre aste con microfoni poco più avanti di lato, una chitarra all’altro angolo del proscenio, dietro di essa una diagonale di qualche decina di bicchierini, davanti ai quali altrettante piccole luci creano l’effetto di lumini.

L’inizio è avviato dall’innesco di tre metronomi, dapprima oscillanti in armonia, poi con cadenze asincrone e differenziate. E’ partito il tempo, ma esso è relativo e non lineare. Interrotti i metronomi, la puntina di un giradischi si poggia su un vinile che riproduce l’overture de “La forza del destino” di Verdi.
Adattandosi ai suoi motivi estremamente variabili, i tre attori sciorinano un lungo elenco di azioni e scelte di vita espresse al passato, collegate da un ‘poi’ che non definisce nessuna consequenzialità, se non un incatenamento casuale e spesso contraddittorio. Sono fatti o stati d’animo perlopiù ordinari: “Poi siamo entrati. Poi… Poi siamo stati visti”. […] “Poi abbiamo scopato. Poi… Poi ci siamo sentiti stanchi”.
Altri, in misura minore, più tipici di uno scenario di guerra o di dittatura: “Poi abbiamo incarcerato, sequestrato, torturato. Poi abbiamo picchiato, schiacciato, mutilato”.

Si ha la sensazione di sentirsi ricapitolare la confusione dei nostri tentativi di approssimazione all’esistenza, in una successione di movimenti che asseconda le forme e gli spazi disponibili come in un tetris in cui le intenzioni e la progettualità lasciano il comando da una parte al caso, alla necessità, alla possibilità concreta e non ideale, dall’altra all’istinto, a bisogni e desideri, ad un’esperienza mai sufficiente, che matura nel momento in cui serve e dopo, non prima.
Un percorso senza nessuna esemplarità, che si conclude drammaticamente con un “poi, abbiamo ucciso, ucciso, ucciso…” prolungato in un’eco sempre più soffusa.
Mentre la vita scomposta viene pronunciata alla rinfusa, i fogli su cui sono incise le nostre azioni vengono fatti volare via dal leggio.

Nella scena successiva, gli stessi vengono raccolti e, dopo un rapido sguardo, accartocciati e buttati a terra, dove, grazie a qualche dispositivo, essi, le nostre azioni, i nostri vissuti, indomiti si muovono, non muoiono, riproducendo un rumore simile al ronzio di insetti fastidiosi alla nostra memoria. Gli attori restano muti anche quando uno di loro passa a raccogliere quei cartocci – e ciò che su di essi è scritto – riunendoli in un grande sacco della spazzatura, poi sospeso e accerchiato da microfoni che da più direzioni amplificano il rumore dei nostri rimpianti.

Rabih Mroué imbraccia una chitarra e dal passato si proietta verso il futuro, ma il suo timbro non ha nulla di melodico: produce prima rumori tesi, stridenti, graffiati, poi saltano le corde e lo stesso strumento è usato come percussione.
Si ripete la scelta drammaturgica precedente di un’elencazione collegata dalla ripetizione della stessa espressione: “Ho paura”. Angoscioso è quindi il futuro che incede nella vecchiaia, nella sua decadenza, nella sua vulnerabilità, nella promiscuità con la morte.

Lo sviluppo drammaturgico oscilla continuamente tra la vita e la sua interruzione, tra le gioie e le sofferenze, a rappresentare il piano instabile su cui sopravviviamo, offrendoci una catarsi collettiva delle nostre ansie più viscerali rispetto al nostro disorientato errare, allo scorrere irrimediabile del tempo e alla sua sempre imminente scadenza. “La vita – è il solo modo / per coprirsi di foglie recita l’incipit di un testo della Szymborska, un’occasione eccezionale / per ricordare […] e persistere nel non sapere / qualcosa d’importante”.

I cambi di tono dei quadri successivi sono senza trapassi e marcatamente contrapposti. Si passa a brindare con grande concitazione, bevendo l’intera riga di bicchierini alla salute di innumerevoli e disparati referenti: persone, personaggi, città, popoli, da Centrale Fies a Rosa Luxemburg, da Berlino a Gerusalemme Est.
A festa finita, un’altra elencazione, questa volta di necrologi: nome, cognome, causa del decesso, morti naturali alternate a morti violente per mano armata.

Nel nuovo quadro, i bicchierini di plastica, sparsi in tutta la scena, sono calpestati ad uno ad uno e la loro frantumazione, amplificata dai microfoni, è un’agonia che evoca la frattura delle ossa di chi non c’è più, dei loro sogni, delle loro fatiche, del nostro corso, volo, schianto.

Lo spettacolo si avvia alla conclusione attraverso tre monologhi, anzi quattro. Il primo, affidato a Rabih, è una lunghissima preghiera in cui la voce si fa musica che scorre densa e piena, sovrapponendosi al rumore dei frantumi, raccolti sotto i piedi dell’attore, che vengono ulteriormente sbriciolati camminando sul posto. L’invocazione a Dio, a tratti blasfema e profana, lo invita ad estinguerci, superando la nostra stessa concezione della divinità e aderendo alla sua natura di vuoto malvagio.
Poi è la volta di Lina Majdalanie, che si presenta in scena con una fisarmonica, non suonata ma mossa solo nel suo mantice come cassa di risonanza del respiro. Statuaria, la sua presenza è accompagnata dalla registrazione della sua voce che riprende il tema dell’estinzione modulandola nella fantasia di un’autofagia.
Infine, Mazen Kerbaj racconta in modo disordinato il suo passato di bambino e ragazzo, tra sicurezze, proiezioni di sé, giudizi e pregiudizi, dalla spavalderia alla scoperta della propria sensibilità: “Da piccolo ero un idiota, ora sono un attore”.

L’ultimo monologo è affidato ad un metronomo, che torna a far sentire nel silenzio la voce del tempo; poi, piano piano, la estingue. Così com’è iniziato, finisce il tempo, lo spettacolo, la vita.
Applausi. Siamo stati solo rumore tra i rumori, movimenti interiori tra strettoie materiali, frantumi di un senso incoerente, ancora più opaco lì dove la Storia e la politica manifestano più atrocemente la loro incoercibile assurdità.

Borborygmus
scritto, diretto e recitato da Lina Majdalanie, Mazen Kerbaj, Rabih Mroué
disegno luci e audio, direzione tecnica Thomas Köppel
luci Arno Truschinski
musica della prima scena La Forza Del Destino – Ouverture di Giuseppe Verdi
prodotto da HAU Hebbel am Ufer, Walker Art Center (Minneapolis)
coproduzione Mousonturm (Frankfurt), Wiener Festwochen
sostenuto dalla rete Alliance of International Production Houses del Federal Government Commissioner for Culture e da the Media e Rosa Luxemburg Stiftung – Beirut Office

durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Dro, Centrale Fies, il 30 giugno 2023

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