Boston Marriage con Paiato e Granelli: quel piacere fisico del teatro

Ph: Serena Pea
Ph: Serena Pea

Il testo di David Mamet portato in scena da Giorgio Sangati

A volte uno si dimentica che esiste un piacere fisico del teatro, cristallino eppure rapinoso, in fondo colpevole. È il piacere della giustezza dei tempi, del calcolo esatto degli effetti, della precisa individuazione della tonalità, in senso proprio e figurato. Del saper girare attorno a quella tonalità, uscendone e sapendo sempre come rientrarvi; del produrre strappi consapevoli; dell’avere sempre lo sguardo presente nel presente.
È, come si è capito, un piacere che sono gli attori e le attrici i soli a saper dispensare nell’esatto momento in cui lo provano loro. Stiamo parlando di teatro di repertorio e, in breve, di saper dare vita alle parole.

Maestra (anche) di quest’arte è Maria Paiato, e con lei lo sono Mariangela Granelli e Ludovica D’Auria, guidate da Giorgio Sangati. È per l’appunto nella viva materia delle parole dette che questa replica, al Teatro India, di “Boston Marriage” è insuperabile, e d’altronde cos’è il testo di Mamet se non una irrefrenabile proliferazione di discorsi, con le loro divagazioni, i loro accidenti, i loro nodi, le loro cadute – un merletto potenzialmente senza fine, marginali ghirigori e punti saltati inclusi.

La scelta di Sangati è di accettare questa sfida e di rivestire il discorso con la carne della voce e del corpo, puntare sulla immediata gittata dell’effetto (mai effettaccio) ben pensato, accuratamente cesellato, attorno a cui finiscono per scomparire persino i bei costumi, le impegnative scene, le sobrie luci, rispettivamente di Gianluca Sbicca, Alberto Nonnato, Cesare Agoni).

Scompaiono perché sono le attrici a imporsi. L’una, Paiato, riesce nel miracolo di mantenere la misura nella dismisura, tratteggiando una Anna mantenuta ormai anziana, tutta ripiena di cliché da tragédienne (o piuttosto da guitta ripulita che altoborghese, magari aristocratica vuol apparire, lei prostituta, “druda”), ora a un passo dall’attaccarsi ai tendaggi, dannunzieggiante, ora regista in campo come una donna goldoniana, tutta intrighi (il dono di una collana diviene pretesto per mascherarsi da mistica veggente). Intrighi destinati a sgonfiarsi ancor prima che il sipario metateatrale si dischiuda, di fronte all’asciutta lettera ingiuntiva di un avvocato. È Wanda Osiris, e Paolo Poli; Maria Callas e signorina Silvani-Mazzamauro (“mi ti levi dal culo?” fa alla serva), e altre ancora. Ma lei non si dà mai per più di pochi attimi alla citazione, il tempo a volte appena sufficiente per individuare, se c’è, l’antecedente, creatrice di parodia sempre sorgiva, vera nella falsità, cioè in un gioco a cui non si può non credere.

L’altra, Granelli, in un ruolo delicatissimo, insieme elemento drammaturgico trainante e sobria spalla, riesce a scolpire una Claire mascolina e volitiva, capace di sogni amorosi di vibrante sensualità (gli ultimi palpiti di una giovinezza che finisce, aggrappata a una tintura per capelli troppo scura, l’amore per una fanciulla quasi bambina la sconvolge) ma dallo sguardo limpido, socratica, disillusa, disperata ma mai sfibrata, palpitante pur inguainata in un costume inaccessibile dalle caviglie al collo alto.

Non è da meno l’ottusa cameriera Marie, che nella resa sgraziata e sbilenca di D’Auria, tanto fisicamente quanto vocalmente importuna al cinguettio delle protagoniste, rinnova la Berta rossiniana, ma invece del raffreddore è ora il pianto fluviale, ora una fregola gialla a contagiarla, un’eccitazione di grana grossa, nei fumi della quale non è raro che emetta gemme di impagabile idiozia e volgarità.

A Sambati resta (al netto di una direzione di attrici inappuntabile) il contorno, e forse è nel tentativo di non sprecarlo lasciandolo in bianco che lo spreca, allestendo una sorta di set televisivo da sit-com, con grandi proiettori a vista e la topica scritta luminosa “on air“. Un distanziamento, un piano interposto tra noi e le vicende in scena di cui è faticoso trovare la giustificazione, fosse per dar conto di una recitazione sopra le righe, è una giustificazione non richiesta, il parossismo era già dichiarato.

C’è poi un timido abbozzo di una scrittura coreografica dei movimenti, sulla musica, anche questo limitato alla primissima entrata di Anne e al finale di Marie che, come la Lisette della “Rondine” di Puccini o le due serve genettiane, si impossessa del manicotto di Claire e si stende sulla dormeuse della padrona di casa, dopo aver abbozzato un paio di passi danzati che le ammorbidiscono improvvisamente la postura.

A volte, si diceva, uno si dimentica che esiste un piacere fisico del teatro. È un piacere che si sfoga anche fisicamente, negli applausi, nel sorriso alle attrici che si inchinano e a cui si cerca lo sguardo, insistentemente, per dir loro brave, brave davvero. Per assicurare loro: io c’ero, lì, con voi!
Poi passa la serata, la notte, e quel “lì, con voi”, chissà perché, si assottiglia, si sfalda, incredibilmente non è già più che un ricordo di esserci stati, flebile come il racconto di un altro. “L’espace d’un matin”, avrebbe potuto dire, flautata, Anna – o d’une soirée. Ecco forse perché uno a volte se ne dimentica.

Boston Marriage
di David Mamet
traduzione Masolino D’Amico
regia Giorgio Sangati
con Maria Paiato, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria
scene Alberto Nonnato
luci Cesare Agoni
costumi Gianluca Sbicca
musiche Giovanni Frison
assistente alla regia Michele Tonicello
foto di Laila Pozzo
foto di scena Serena Pea
produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Biondo di Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
Per gentile concessione di A3 Artists Agency

durata 1h 45′
applausi del pubblico: 4′

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