Il direttore artistico Donato Nubile racconta come la sala di Casoretto sia diventata un punto di riferimento per il teatro contemporaneo, la formazione e l’inclusione sociale
La lunga e affascinante evoluzione di una delle realtà più dinamiche e innovative del panorama teatrale milanese. Donato Nubile, direttore di Campo Teatrale, ci racconta come, da una piccola scommessa all’inizio del nuovo millennio, la sala di Casoretto a Milano sia lentamente diventata un punto di riferimento non solo per il teatro contemporaneo, ma anche per la formazione e l’inclusione sociale. Con uno sguardo attento alla periferia e alle nuove generazioni di artisti, Nubile ci guida attraverso un viaggio che intreccia la sua visione culturale con il mondo del lavoro, la comunità e la sfida di creare un dialogo continuo fra teatro e pubblico. Un’occasione in più per riflettere sul ruolo del teatro come motore di cambiamento e di condivisione.
Donato, come descriveresti l’evoluzione di Campo Teatrale nel corso degli anni?
Campo Teatrale, per come lo conosciamo oggi, è nato circa 15 anni fa in una situazione di grande difficoltà. Una fase di crisi che ci ha dato però l’opportunità di reinventarci. Il trasferimento nella sede di via Casoretto è stato un passo fondamentale: abbiamo lasciato un piccolo seminterrato, una ex officina meccanica, per approdare in quello che è diventato un “condominio teatrale”, come lo definì un dirigente comunale. Questa evoluzione è stata segnata dal desiderio di raccogliere, fisicamente, le diverse anime che componevano il nostro progetto: la formazione, la produzione, l’ospitalità e gli eventi.
Ci siamo subito resi conto che non saremmo riusciti a sostenere tutto da soli. Così, abbiamo iniziato a collaborare con altre realtà, promuovendo progetti che fossero in sinergia con il nostro. L’apertura a progetti esterni è diventata una necessità per noi, un passo che ha finito per caratterizzare la nostra attività.
Per un lungo periodo, Campo Teatrale è stato una sorta di “residenza artistica ante litteram“, prima che il modello venisse formalizzato e normato a livello nazionale da un decreto ministeriale.
Il nostro impegno nel costruire reti, come quelle con l’associazione Scenario, il Network Drammaturgia Nuova e la Fondazione Claudia Lombardi, ci ha permesso di guardare sempre con attenzione alla nuova scena, alle compagnie emergenti e ai progetti in divenire. Non avevamo i fondi per invitare compagnie già affermate, quindi puntavamo su realtà più giovani e meno conosciute, ma con progetti interessanti e potenzialmente promettenti. Alcune di queste hanno poi trovato spazio su palcoscenici con più visibilità del nostro, assegnandoci così un po’ un ruolo da talent scout. Ancora oggi, quando faccio parte di commissioni artistiche, cerco non solo progetti già definiti, ma anche quelli che, con un po’ di sostegno, credo possano crescere.
Mi sembra poi che la nostra attività abbia avuto anche un effetto collaterale importante: quello di contribuire alla vivacità della periferia milanese, offrendo uno spazio di espressione e visibilità in una zona che spesso viene percepita come marginale. Ricordo ad esempio quando, anni fa, un artista ci chiese di invitare una giornalista che aveva sempre seguito il suo lavoro. La giornalista rispose che avrebbe visto il suo spettacolo in un altro teatro, “non periferico”. L’artista le scrisse: “Davvero è solo qualche fermata di metro che ti fa decidere cosa vale la pena di guardare?”. Alla fine, la giornalista venne. È un esempio che dimostra come la qualità del lavoro artistico possa in un certo senso ridefinire la geografia culturale di una città.
Tu provieni da Matera e hai studiato economia alla Bocconi. In che modo queste esperienze hanno influenzato il tuo approccio alla direzione artistica e alla gestione di una realtà teatrale?
La mia adolescenza a Matera mi ha insegnato il valore delle relazioni umane e del comunitarismo. I Vicinati, nei Sassi, sono un esempio meraviglioso di cooperazione e mutualismo. Ogni famiglia si prendeva cura dell’altra, la risorsa più importante, l’acqua, era gestita in comune. Questo senso di “comunità” mi ha sempre accompagnato, e quando mi sono trasferito a Milano ho forse ricercato nel teatro un microcosmo che valorizzasse queste stesse dinamiche. Il teatro è stato per me una sorta di ritrovamento di quella comunità che avevo lasciato, ma che nel frattempo avevo imparato ad apprezzare ancor di più.
La mia formazione accademica in economia alla Bocconi, che condivido con il nostro direttore organizzativo Marco Colombo Bolla, è stata importante: ho imparato a ragionare in termini di efficienza, organizzazione e visione a lungo termine. Per Campo Teatrale significa che, pur essendo una realtà culturale senza scopo di lucro, è stata sempre pensata e gestita come un’azienda: una realtà che deve avere una chiara visione, una gestione oculata delle risorse e una programmazione attenta a bilanciare sostenibilità economica e creatività.
Nel tempo, ad esempio, siamo riusciti a diversificare le fonti di finanziamento, ottenendo una maggiore stabilità economica. Oggi, solo il 20-25% delle nostre risorse proviene da fondi pubblici.
César Brie, che considero il mio maestro, mi disse: “Se puoi essere un bravo amministratore, inizia ad esserlo di te stesso”. Questo consiglio mi è stato prezioso. Ma anche in università non tutto era competizione e indici di bilancio. Come quel professore che ci disse: “Se siete qui, siete dei privilegiati. Vi auguro di riuscire a restituire la fortuna che avete ricevuto.”
Campo Teatrale non è solo un teatro, ma anche un centro di formazione. Qual è l’importanza della scuola di recitazione che gestite?
La scuola di recitazione è il cuore pulsante di Campo Teatrale. Sentiamo spesso dire dai nostri studenti che “qui si sta bene”. Le lezioni non sono solo un momento di apprendimento tecnico, ma una vera e propria esperienza di benessere. Sono uno spazio per mettere alla prova se stessi, confrontarsi con emozioni intense, stimolare la crescita individuale, ma anche per vivere un’esperienza di comunità che si fonda su relazioni autentiche.
La nostra scuola è un laboratorio di diversità, dove persone di età e storie differenti si incontrano. Questo crea una ricchezza che arricchisce sia la formazione teatrale che le dinamiche sociali. La scuola è anche un osservatorio privilegiato sulla città: ci permette di cogliere le esigenze, le aspettative e i cambiamenti che si riflettono nelle nuove generazioni e nella città. Le risposte che riceviamo dai nostri 700 studenti ci offrono uno spunto costante per evolverci e rispondere a nuove necessità.
Parliamo anche di teatro sociale e di inclusione. Come il teatro può diventare uno strumento di inclusione per le persone con disabilità?
Un progetto emblematico è la nostra collaborazione con L’Officina delle Abilità, che è partita offrendo percorsi teatrali a bambini con e senza disabilità, aiutando lo sviluppo di competenze relazionali, comunicative e cognitive e superando barriere tra persone con diverse condizioni fisiche e psichiche.
I bambini si sono presi cura gli uni degli altri, rompendo così la dinamica tradizionale del “fare per” e aprendo a una relazione più paritaria. Questo tipo di esperienza ha portato alla nascita di due veri e propri spettacoli: “In Stato di Grazia” e “I Ritardatari”, con Francesca Merli e Laura Serena. Entrambi affrontano tematiche di inclusione e sono stati progettati per sensibilizzare il pubblico sulla realtà dei bambini e degli adolescenti con disabilità. La collaborazione con l’associazione culturale Fedora ha reso gli spettacoli accessibili anche a un pubblico con diverse necessità, integrando strumenti come la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) e il linguaggio dei segni (LIS).

Theatrical Mass è un progetto centrale della vostra proposta. Cosa vi ha spinto a crearlo e come si inserisce nella vostra filosofia?
Theatrical Mass è nata nel 2005 come una necessità di creare un momento di condivisione tra artisti e pubblico. A quel tempo ero in tournée con uno spettacolo sui migranti, “Il cielo degli altri”, con la regia di César Brie. Erano gli anni in cui, a proposito dei “respingimenti”, Bossi dichiarava di voler sentire “il rombo dei cannoni”, e il nostro lavoro in alcune occasioni aveva suscitato reazioni piuttosto accese. Quando sono tornato a Milano, mi sono reso conto che la comunità teatrale milanese era molto chiusa, e peccava di autoreferenzialità. La mia domanda era: perché il pubblico non è più ampio? E perché il teatro non riesce a uscire da un circuito di nicchia?
Così è nata Theatrical Mass: inizialmente, si trattava solo di un gruppo di persone che si incontravano per vedere uno spettacolo e discuterne insieme. Col tempo, il progetto è cresciuto e ha assunto una nuova forma, diventando un’occasione per sostenere le giovani compagnie nella produzione dei loro lavori, creando una comunità che è sia di artisti che di spettatori. La filosofia alla base di Theatrical Mass è che il pubblico non è solo un destinatario, ma una parte integrante del processo creativo, e il legame che si crea tra artisti e spettatori va al di là del momento in cui accade lo spettacolo.
Come Theatrical Mass contribuisce a rafforzare il legame tra pubblico e compagnie emergenti?
Ogni spettacolo di Theatrical Mass è seguito da un incontro tra la compagnia e il pubblico, dove non si cerca di creare un momento di critica teatrale, ma di dialogo. Questo approccio consente di mettere in evidenza la bellezza nascente di ogni lavoro, senza l’ansia del giudizio, ma con la curiosità di esplorare insieme il processo creativo. La reazione del pubblico è sempre molto positiva: si crea un legame emotivo e intellettuale che supera la distanza tra palco e platea.
E Campo Teatrale come cerca di abbattere le barriere sociali e culturali in una città come Milano?
È abbastanza in voga il dibattito sulla cosiddetta crisi del “modello Milano”, si parla di “chiusura di un ciclo” che avrebbe avuto inizio dopo Expo. Spesso però le argomentazioni portate per certificare questa crisi mi sembrano affette dallo stesso asso di ideologia che fino a qualche anno fa accompagnava l’esaltazione di una città capace di fare storia a sé rispetto al resto del Paese. Riduzione del potere d’acquisto, incremento delle disuguaglianze, sentimento diffuso di precarietà rappresentano certamente tre sfide urgenti, ma per il nostro Paese, non solo per Milano.
Una volta, un aspirante assessore alla cultura, durante un incontro con i teatri milanesi in campagna elettorale, non disse altro che “sono qui per ascoltare”. Mi irritò profondamente: la verità è che non aveva niente da dire, proprio quando avrebbe dovuto spiegarci quale fosse la sua idea di politica culturale a Milano.
È con gli artisti e le artiste che hanno accompagnato i nostri progetti che Campo Teatrale ha cercato, in questi anni, di contribuire alla riflessione pubblica. Preservare la memoria, interpretare il presente, offrire visioni del futuro: del resto è questa per me la funzione del teatro. Non si tratta tanto di promuovere politiche inclusive, quanto di allargare il campo del confronto, dell’incontro, del pensiero. Trovare forse parole nuove per tentare risposte possibili agli interrogativi del presente. Per noi, il teatro è uno strumento per costruire una società più sensibile, più consapevole e capace di guardare al futuro senza paura. È, in questo senso, una pratica politica.
Campo Teatrale è anche un punto di riferimento per le aziende. Come il teatro può essere utile per il mondo del lavoro?
Negli ultimi anni, il teatro è stato utilizzato in molti contesti aziendali come strumento di formazione esperienziale. L’uso delle tecniche teatrali aiuta i team aziendali a migliorare la comunicazione, la leadership, la coesione e la creatività. Spesso, infatti, le aziende ci contattano per percorsi di formazione che utilizzano il teatro per lavorare sulla consapevolezza di sé, sulla gestione del gruppo e sulla capacità di risolvere i conflitti. Le tecniche teatrali favoriscono un ambiente di apprendimento coinvolgente, che consente alle persone di esprimersi liberamente e di lavorare in modo armonioso ed efficace.
C’è qualcuno che vorresti ringraziare?
Tutti quelli che hanno contribuito e contribuiscono a rendere Campo quello che è: Gianluca Stetur e Ombretta Nai, che lo hanno fondato nel 1999 per poi lasciarlo a noi; Caterina Scalenghe, che ha contribuito al suo rilancio quando ci siamo trasferiti nella nuova sede; gli artisti e le artiste che hanno condiviso con noi le proprie visioni; la comunità di insegnanti e di allievi; i nostri partner di progetto; chi in passato ha lavorato con noi e chi ancora lo fa: Carlotta Calò, Chiara Mironici, Francesca Beretta, Letizia Milani, Lia Gallo, Marco Colombo Bolla, Sara Soldera, Stefano Colonna.