Antonio Tarantino e Francesca Ballico al cospetto di Medea

Cara Medea

Antonio Tarantino e Francesca Ballico parlano di “Cara Medea” in occasione della prima milanese al Teatro dei Filodrammatici

Cara Medea
Cara Medea (photo: teatrofilodrammatici.eu)

Medea, “uno dei capolavori di Euripide”; una tragedia classica, per noi oggi, ma “non troppo” nel V secolo a.C., quando andò in scena per la prima volta ad Atene: con protagonista unica una donna e, come conflitto principale, il suo interiore.

E’ una tragedia in cui, a differenza delle altre, gli dei non intervengono. Tanto che la disperazione di Giasone non riceve risposta, e la tragedia si chiude con l’uomo che arriva ad accusare gli dei.
Qualcosa di simile a una bestemmia, al “Dio non c’è per nessuno”, finale della “Cara Medea” di Antonio Tarantino? «No, in realtà il monologo ha un finale sospeso, ho preferito lasciarlo così, libero» spiega il pluripremiato drammaturgo, intervenuto a margine della prima milanese dello spettacolo diretto e interpretato da Francesca Ballico, e prodotto da Teatri di Vita di Bologna.
Rimarrà in scena al Teatro dei Filodrammatici fino al prossimo 23 ottobre.

Ai due artisti abbiamo chiesto se l’assenza di un Dio sia l’elemento comune e originale, mantenuto da Euripide e riadattato da Tarantino, e quindi da Ballico, in funzione di questa Medea, una donna dell’Est dei nostri giorni, una straniera errante tra guerre e migrazioni, incarnazione della “immigrata” nelle nostre città. «No, nella tragedia di questa donna, rappresentativa di una condizione universale, ciò che manca è il dio della fede popolare, il “divino”, il dio contingente, quello alla portata dell’uomo che lo invoca; e questo è esemplare del fatto che dio c’è perché noi lo diciamo».

Parla così, per frammenti, Antonio Tarantino, con quel suo stare come “in prestito” sulla sedia messa apposta per lui, l’ospite d’eccellenza della serata, il “pluripremiato autore” presente in platea, che non si sottrae alle domande, ma nemmeno evita di contraddirle.
A voce non bassa, ma minima sufficiente, soffia fuori solo qualche frame delle molto più lunghe e articolate immagini che colorano la sua testa, e che gli hanno dato l’ispirazione per comporre il monologo: «È una Medea vista da uno che nel dopoguerra era ragazzino: nel giugno del ’45, vedevo le strade piene di stranieri che smobilitavano, di polacchi, di tedeschi, dei grossi convogli militari verso la Germania. Di tutto questo movimento, mi aveva colpito il plurilinguismo, la poligamia linguistica».

Nel monologo del 2004 (edito da Ubulibri nel volume “Gramsci a Turi e altri testi”), una sopravvissuta al campo di sterminio di Sobibor racconta il suo viaggio per l’Europa dell’Est dopo la Seconda guerra mondiale: «Il percorso da Sobibor a Pola, dal punto di vista geografico, è un percorso senza senso – spiega Tarantino – Rappresenta il mondo senza logica, uscito da cinque anni di guerra, un mondo che ha perso quindi la sintassi del linguaggio e che riferisce in modo barbaro ed esplicito la sua distruzione, un mondo che ha perso la dignità».
Ecco perché, nella “Cara Medea” di Francesca Ballico, polacco e friulano, croato e albanese, rumeno e russo si alternano all’italiano con marcata pronuncia dell’est, chiedendo all’attrice un continuo trasformismo: «Non solo a livello di pronuncia – spiega l’interprete -, in questa Medea c’è infatti un doppio livello da rendere: le ragazze che vengono dall’Est e qui stanno in strada, alternano continuamente un’aggressività provocatoria a un’improvvisata dolcezza nei confronti di chi le avvicina. Le ho visitate, ho notato questo atteggiamento, e ciò mi ha portato a riflettere su quanto il “non capire qualcuno” renda questo qualcuno uno straniero ai nostri occhi, un barbaro, da temere oppure da ridicolizzare».

Come confermato dall’autore, secondo il quale «la scelta di ripetere il testo in diverse lingue dell’est europeo corrisponde esattamente alla mia intuizione drammaturgica originaria», l’allestimento di Francesca Ballico è una traduzione funzionale all’idea di Tarantino. E mentre l’attrice chiama in causa la mentalità, troppo diffusa, dell’«immigrato che spaventa», o delle «badanti che magari hanno due lauree ma qui, a causa del loro modo di parlare, vengono ridicolizzate», Tarantino si sofferma un istante a elogiare le lingue dell’Est «magnifiche» – sospira, e poi spiega – «qui però servono a dare l’immagine dell’alterità, di ciò che suona straniero e che, quindi, rimane fuori dalla nostra comprensione».

Ecco perchè Medea, che come l’omonima euripidea è un continuo alternarsi di propositi omicidi e di pentimenti, incarna i due livelli delle ragazze dell’Est; ed ecco perché Francesca Ballico indossa un miniabito che la strizza e denuda: è una Medea debole e forte allo stesso tempo, «un personaggio di disperazione, per il quale non c’è espiazione ma solo forte senso di pietas», non più disposta a piegarsi, ma rimasta sola. Illuminata dai fanali delle auto di passaggio, dialoga con i rumori della strada, e parla dalla cabina telefonica al suo Giasone: si muove impaurita, anche se sembra a suo agio. Abituata ad essere fuori luogo, si percepisce che sta scomoda, ma non rinuncia a parlare diretta, senza il filtro del pudore. Mediata però da uno schermo che la riflette e amplifica: sottolinea così la sua doppia natura e allo stesso tempo ci avvicina a lei, al suo volto, al suo intimo conflitto.

La tragedia è così in presa diretta: «Dio doveva farci con la marcia indietro» chiosa Medea. «Non è un finale di scetticismo» ripetono d’accordo i due artisti: «Ognuno può trarre le sue conclusioni» commenta lei, alzando le spalle a palmi aperti. «Trovo che uno dei miei aspetti sia in realtà la comicità» assicura Tarantino.

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