A volte, in un piccolo teatro di provincia, capita di imbattersi, al suo debutto, in uno spettacolo di originale fattura, che ti apre dubbi e domande che hai dentro e allo stesso tempo sono il fulcro di un mondo in continua ebollizione.
Così è avvenuto al Teatro San Teodoro di Cantù, dove ci è capitato di vedere, in anteprima, “Ritratto di donna araba che guarda il mare” di Davide Carnevali, uno degli autori di punta della drammaturgia italiana esportata in Europa, testo vincitore nel 2013 del Premio Riccione per il Teatro, qui produzione di LAB121 con la regia di Claudio Autelli.
Lo spettacolo mette al centro dello sguardo dello spettatore due mondi assai distanti tra loro, e destinati, forse, a mai incontrarsi.
In scena, intorno ad un tavolo su cui è ricostruita una città ripresa nei minimi dettagli, con palme, moschea e i muri bianchi che una telecamera, mossa sapientemente, ci ripropone in grandezza naturale, troviamo un europeo, una donna araba, un ragazzino ed un giovane uomo.
L’uomo è un turista, capitato in una città senza nome del Nord Africa, forse Marocco o Algeria.
Qui una sera, al tramonto, davanti al mare incontra una giovane donna. Attratto da questa visione lo straniero ne tratteggia il profilo e lo regala alla donna. E’ questo disegno il principio della storia.
L’incontro a cui assistiamo non è solo l’incontro tra un uomo e una donna, ma anche di due mondi assai differenti. L’uomo europeo e la donna araba portano con loro valori e culture di popoli diversi per sensibilità e passato. Lo si nota anche in ciò che dicono, nelle parole che usano, che spesso fraintendono perché, di volta in volta, assumono significati diversi, sia per l’una che per l’altro.
Inevitabilmente però, dopo un primo sguardo furtivo ma significante, iniziano i pedinamenti reciproci, incontri che sembrerebbero casuali ma che in verità non lo sono, piccoli regali, avvicinamenti in stanze sempre diverse dello stesso albergo.
Nella città, dove tutti sanno tutto di tutti, i due, così diversi tra loro, inevitabilmente intrecciano i loro destini, un intreccio di parole e gesti che a noi sembrano reali e comprensibili, ma che forse per loro non sono sempre così.
C’è una distanza tra i due che forse non si potrà colmare: “Non siamo arabi, anche se è quello che si dice, anche se è quello che si scrive, anche se è quello che uno straniero pensa di noi. Ma uno straniero che non conosce davvero questo paese di solito dice cose sbagliate e scrive cose sbagliate. Anche se forse questo per lui non significa niente”.
Vicino a loro, i due fratelli di lei, il piccolo, che candidamente, ipotizzando un mondo perfetto, vuole colmare questa distanza, e il maggiore, che cadrà vittima sacrificale nel tentativo di vendicare l’onore perduto della sua famiglia, per un rapporto che forse impossibile, anche per colpa di un passato di prevaricazione che non potrà mai essere cancellato.
La bella regia di Claudio Autelli porta in scena questo testo di Carnevali, per nulla buonista, che scava in mondi in cui ognuno coltiva i propri desideri e le rispettive incontrovertibili ragioni. E lo fa in maniera semplice e complessa allo stesso tempo, attraverso un raffinato continuo gioco a rimpiattino tra luce e attori (il fondamentale disegno luci è di Marco D’Andrea).
Gli attori e le loro parole vivono, raccontando ed interpretando nel medesimo tempo i fatti, solamente quando sono attraversati da una luce, mai aggressiva; la penombra accompagna un’atmosfera rarefatta che si colloca tra sogno e realtà, mentre le voci e i rumori, il mare innanzitutto, riempiono la scena di suggestioni che le parole solo accennano (il suono, anche qui importante, è di Gianluca Agostini).
Aiutato in modo perfetto da Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù e Giulia Viana, lo spettacolo afferra per la mente e per il cuore lo spettatore e lo porta a considerare in modo diverso una realtà che invece pareva di conoscere alla perfezione.
Davide Carnevali, nello spettacolo sembra che i due mondi che ci poni davanti, quello europeo e quello arabo, non debbano mai incontrarsi. Lo pensi davvero?
Penso che se non riescono a incontrarsi davvero sia a causa di una incapacità di comprensione, quella stessa che mostrano i due personaggi o – su un piano metaforico – le culture insediate sulle due sponde del Mediterraneo. Tanto l’uomo europeo quanto la donna nordafricana mettono in gioco una visione del mondo del tutto personale, si mostrano incapaci di prendere le distanze da quella presa di posizione iniziale per incontrarsi davvero, e dunque finiscono per parlare e agire da quelle posizioni isolate. Per questo le loro parole non corrispondono del tutto alle loro azioni, e i due personaggi si nascondono costantemente dietro bugie e mezze verità.
Come essere umano, e come europeo, al contrario desidererei che questo rapporto fosse sincero, e che l’incontro avvenisse con una disposizione di fondo ad ascoltarsi e comprendersi. Quanto più ricca sarebbe (stata) la cultura europea-occidentale, se nel corso dei secoli fosse stata davvero disposta a integrarsi con le altre con cui è venuta in contatto?
La lingua e l’uso delle parole nello spettacolo rivestono una parte importante. Approfondiscici quest’aspetto.
Il linguaggio è il mezzo privilegiato tanto della comunicazione quanto dell’incomunicabilità. A me interessa soprattutto il non dicibile, il non comunicabile, ciò che resiste al linguaggio, che rifiuta di essere espresso in una parola, e che dimostra così l’insufficienza e l’inconsistenza di un sistema denotativo-descrittivo capace di comprendere il mondo. Personalmente penso che il teatro, per essere davvero teatrale, debba essere cosciente di questo scarto, debba entrare in questo buco nero della comunicazione che si trova sul retro di ogni parola.
Molti dei miei testi lavorano su questa tensione tra parola e immagine, tra detto e indicibile, tra il testo definito e il sospeso della poesia. Tra quello che è scritto, quello che lo spettatore può immaginare, e quello che accade materialmente nel qui e ora dell’evento teatrale.
Ho sentito molto l’influenza di Camus: ti ha ispirato il suo lavoro?
Questo è un testo molto differente da quelli che scrivo solitamente. Un testo piuttosto statico, denso, in cui porto avanti una ricerca sul valore poetico della parola, piuttosto che sulla struttura formale dell’opera. Nel momento in cui mi sono messo a scrivere “Ritratto di donna araba che guarda il mare” ho riletto i testi francesi di Koltès, Camus e Lagarce, e sicuramente se ne avverte l’influenza.
Come deve essere, in teatro, il rapporto tra autore e regista?
Penso che l’operazione più complicata per un regista che lavori sui miei testi – ma anche la più stimolante e, forse, il nucleo essenziale del suo lavoro – sia sostanzialmente la traduzione di un sistema semantico dal piano letterario a quello performativo. In questo il regista deve saper aggiungere la sua arte stando attento a non sovraccaricare di segni la partitura drammaturgica, che nel mio caso è già piuttosto densa. Autelli ha saputo farlo con un’abilità rimarcabile, per questo testo che credo sia il testo più ostico che io abbia scritto. Non avevo un’idea precisa di come avrei potuto metterlo in scena.
Tu lavori spesso all’estero. Trovi più difficile farlo in Italia?
Innanzitutto bisogna ricordare che l’estero è uno spazio geoculturale che racchiude tutto ciò che Italia non è, quindi è piuttosto naturale che la mole dei miei testi presentati all’estero sia superiore a quelli presentati in Italia. Sono spesso all’estero perché il mio lavoro si è diffuso in Germania con il premio al Theatertreffen Stückemarkt, e in Francia grazie alla Maison Antoine Vitez.
Poi il Teatre Nacional de Catalunya mi ha proposto di entrare nel suo dipartimento di drammaturgia. Ultimamente però ho iniziato a lavorare molto anche qui. Il sistema teatrale italiano ha moltissimi problemi, alcuni congeniti, altri contingenti, che è difficile riassumere in poche righe. Il più grave è sicuramente lo scollamento fra il teatro e il tessuto sociale, e quindi il problema della mancanza di pubblico e di interesse da parte del pubblico. L’altro problema grave per un autore è la scarsa fluidità nella circolazione dei testi, e soprattutto il fatto che quando un testo viene montato da qualcuno, poi nessun altro lo monta più. In Germania invece, con il sistema del repertorio, un testo vive le molte vite delle molteplici messe in scena, anche simultanee.
Sono in scena altri tuoi testi in questo periodo?
In questo periodo ci sono in scena differenti testi in Germania, Francia, Spagna, Romania; ci sono altri progetti in Portogallo, Grecia, Mexico, Argentina. In Italia, oltre al lavoro di Autelli, si può ancora vedere Michele Di Mauro in “Confessione di un ex presidente che ha portato il suo paese sull’orlo di una crisi”; mentre Fabrizio Arcuri sta preparando la produzione di “Goodbye Europa / Lost Words” al Teatro di Roma, che dovrebbe riprendere anche “Sweet Home Europa”.
E tu a cosa stai lavorando?
Sto lavorando su “Educazione Transiberiana”, un progetto sulla pedagogia per l’infanzia che metterò io stesso in scena, dirigendo Silvia Giulia Mendola, Alberto Onofrietti e Fabrizio Martorelli, che sta già portando in giro un estratto da questo spettacolo, il mini-monologo “Peppa prende coscienza di essere un suino”.
RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE
di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli
con Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù e Giulia Viana
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
disegno luci Marco D’Andrea
suono Gianluca Agostini
assistente alla regia Marco Fragnelli
tecnico luci Stefano Capra
organizzazione Monica Giacchetto e Camilla Galloni
comunicazione Cristina Pileggi
Testo vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro – in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di Next/laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù
Visto a Cantù, Teatro San Teodoro, il 3 dicembre 2016
Prima nazionale