Casa Barbablu. Otto Marco Mercante nel cuore malato del femminicidio

Casa Barbablu (photo: Francesca Randazzo)
Casa Barbablu (photo: Francesca Randazzo)

Un fondale nero. La luce rivela lentamente un velo bianco disteso a terra. E la voce di Fabrizio Pugliese inizia a raccontare la fiaba nella versione di Collodi. “C’era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche…”. Dalla quinta di destra entra un uomo alto e stanco. Trascina con sé un carico di barattoli, forse il carico dei suoi polverosi averi, incondivisi? No.
La voce fuori campo ha già finito di raccontare che l’affaticato individuo faceva ribrezzo ai più per il fatto di avere la barba blu, e continua informando che la ragione intima dell’orrore era “che quest’uomo aveva sposato diverse donne” delle quali però non si era saputo più nulla.

Ecco dunque che i barattoli del carico si palesano come la marca scenica post-industriale di numerosi matrimoni. “Fatto sta che Barbablu, tanto per entrare in relazione” iniziò a trascorrere un tempo imprecisato con la minore fra le ‘doti’ della sua vicina: una fanciullina sorridente e vanesia che fa seguito, nella parata d’ingresso, giocando al salto della corda, un vestitino verde di bambina, ‘scarpette rosse’… E così, ‘tanto per entrar in relazione’, stanco-solo e fanciullina-dote finiscono con l’abituarsi l’uno alla vista dell’altro, la barba blu diventa tollerabile, finché arriva l’amore. Mina lo celebra in tutto il suo calore, semi-nascostamente erotico, pudicamente irriverente.

La parola è ora parlata alla quarta parete. Sono Francesca Danese e Otto Marco Mercante, ‘padre’ di questo progetto di cui cura regia, drammaturgia, disegno luci in un a solo rispetto ai consueti lavori corali di Principio Attivo Teatro. Introducono la loro bizzarra ‘armonia’ ad un pubblico attento, sforzandosi in tutti i modi di convincerlo che è cosa buona e giusta. Cinguettano, saltano, ballano e poi… beh, poi si siedono al tavolo di un immaginario salotto — forse Anni Settanta? bello sarebbe vederlo arredato — unico elemento di una scena altrimenti pulita. Mangiano. Una zuppa. Da due piatti bianchi. Bevono. Vino rosso. Da due bicchieri trasparenti. E così continuano, attivando la lunga frazione di un tempo indeterminato, cadenzato da una lenta, inesorabile melodia estrapolata dal repertorio di Einaudi.

Il matrimonio fluisce, ma ad ogni tocco del mestolo in acciaio sul fondo della pentola rossa laccata, sembra che un’altra porta della prigione si chiuda alle loro spalle. Lo spazio si fa sempre più stretto — e sarebbe bello se in qualche modo l’allestimento scenico contribuisse a questo senso di claustrofobico rimpicciolimento e mancanza d’aria e sogni. Sogni incattiviti, come quello splendido ‘quadro’ chagalliano che si deve a Francesca Randazzo, in cui lei sembra voler volare via da sola, tra i frammenti di tulle bianco da sposa, a cavallo di una scopa…

Le brevi battute che i due si scambiano sembrano uscite dalla ‘scena da un matrimonio’ in uno qualunque dei palazzi urbani che circondano il Piccolo Teatro di Bari, una ’vulgata retrò’ che – forse in maniera un po’ didascalica – conduce esplicitamente al centro di una ‘femminicidialmente’ mediatica attualità.

Pian piano lo spettatore non disattento si persuade di una cosa: questo non è uno spettacolo sulla ‘violenza sulle donne’. “Casa Barbablu”, visto in anteprima nazionale, parla di dipendenza affettiva, che del femminicidio — ma anche del maschicidio, del matricidio, o del patricidio, è la radice nera e brutale, quanto sconosciuta.

E Barbablu? Lui è un uomo solo da morire, che si nutre della presenza di questa piccola bestiolina femmina. “Mangia e stai zitta”. Girami intorno ma fallo in silenzio. Tienimi compagnia ma fallo in silenzio. Un silenzio al quale la bestiolina non si adegua, e quando lo spezza lui le riempie la bocca. La vuole ‘bulimica’ come lui: due criceti che continuamente si divorano l’un l’altro tessuti di carne-amore che sono talmente finti da essere puro odio. Barbablu è il banalissimo predatore borderline della porta accanto (o della chat accanto) che di notte va a caccia di stupide fanciulline alla disperata ricerca di attenzione e sicurezza. Talmente solo da disperarsi fino alle lacrime quando lei lo lascia. E inchioda il monologo di Mercante “che forse ha mal di cuore, non riesce a stringere il pugno, dalla mano gli scivola tutto…”. E la fiaba?

La voce di Pugliese torna, torna quando “lei deve morire” sotto una luce rossa: “In quel momento fu bussato così forte alla porta di casa, che Barbablu si arrestò tutt’a un tratto, e appena aperto si videro entrare due cavalieri i quali, sfoderata la spada…”.
L’ultima linea viene abbandonata sul giradischi come un disco incantato. E nella pace transitoria dell’ennesimo Miserere lui la ri-mette in posa con la sola cura che può — se non respira poco importa, ciò che conta è che lei continui a fare il suo dovere di presenza silenziosa. Finisce ordinariamente la cena, spegne il televisore, ricopre la scena del delitto con il velo bianco.
La ragnatela è finita.

Casa Barbablu
da un progetto di Otto Marco Mercante
con Francesca Danese e Otto Marco Mercante
consulenza artistica di Francesca Randazzo

Visto a Bari, Piccolo Teatro, il 4 novembre 2018
Anteprima nazionale

 

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