Sono passati due anni dalla prima volta. Dalla nostra prima edizione vissuta del Festival Internacional Cervantino, nel 2013. E’ arrivato quest’anno alla sua 43^ candelina, dopo aver avuto l’anno scorso il Giappone come paese ospite, celebrato William Shakespeare e per questo, come ci aveva preannunciato il direttore Jorge Volpi, invitato una compagnia italiana che mettesse in scena il Bardo: era uscita vincitrice la Socìetas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci con il “Giulio Cesare”.
Ora che è appena finita, torniamo a quest’edizione del Cervantino, con la grande festa che ha ammaliato di messicanità la spianata della Alhòndiga, quel luogo che ha visto nel 1810 gli indipendentisti guidati da Miguel Hidalgo, e da El Pipila roccia sulle spalle e dinamite in pugno, sbaragliare le truppe dei colonizzatori spagnoli.
Il Ballet Floklorico de México de Amalia Hernandez e l’Orquestra Sinfonica de la Benemérita Universidad Autonoma de Puebla illuminano dal palco, annunciando che la festa non può avere fine, solo sarà messa a riposo, fino al prossimo anno. Salutano chi sarà ospite nel 2016 del festival: come Stato del México, Jalisco; come Paese, Spagna.
E come non sarebbe potuto essere altrimenti? Il prossimo anno si festeggeranno i 400 anni dalla morte di Miguel de Cervantes (il 22 aprile del 1616), autore di Don Chisciotte, colui che ha dato il nome nobile al Festival. Titolo della ‘rassegna nella rassegna’ a lui dedicata: “Dalla follia all’idealismo”. E chissà che non risponda idealmente al tema che è stato il fil rouge che ha tenuto insieme gli spettacoli e le iniziative di quest’annata: “La ciencia de la arte, la arte de la ciencia”.
Nella presentazione al festival, il direttore Jorge Volpi ha detto che, arrivati al Ventunesimo secolo, la scienza e l’arte sono diventati due elementi distanti, due universi che appaiono a tratti incapaci di dialogare.
Da quanto i due emisferi propri dell’essere umano – quello destro della creatività e il sinistro del raziocinio – hanno smesso di rivolgersi la parola?
Ecco allora che colmare la distanza è stato il tentativo di quest’anno del Cervantino.
Hanno cercato in tutti i modi di riavvicinare la testa al cuore, e alle emozioni, comprese quelle dello stomaco, durante la rassegna, inaugurando proprio quest’anno anche il Primer Festival Cervantino Gastronomico, con la cucina di Morelos (lo Stato messicano ospite) e del Pacifico (Colombia, Cile, Perù, i tre Paesi invitati), che si è potuta addentare curiosando per i ristoranti sparsi nel centro storico di quella che continua ad essere, a ragione, la gemma del México.
Il cuore deve essere nutrito anche dal sorriso, anzi da risate che arrivino sincere: ci hanno pensato i cinque scienziati “nerd” di The Big Van Theory che, direttamente dalla Spagna, e parafrasando il televisivo e noto ai più “The Big Bang Theory”, con risa a crepapelle hanno accompagnato il festival coi loro laboratori e spettacoli, introducendo alla scienza con comicità grandi e piccini.
Lì vicino, nel Patio de Relaciones Industriales, accanto alla prestigiosa Università di Guanajuato, curiosando nell’attesa dell’inizio, ecco una scritta che folgora, ad accompagnare la proiezione di un video di “scienza”:
Il presente non si eredita dal passato,
si chiede in prestito dal futuro.
Capo Indiano Sioux, Seattle, 1960
All’ingresso del Patio si trova la mostra “Sin maíz no hay Toledo”, che parafrasa il detto “Sin maíz no hay Pais”: Senza mais non c’è Paese, non c’è México. L’ha ideata Francisco Toledo, il più grande artista messicano vivente. Viene da Oaxaca, lo stato con più tradizione e arte della Repubblica, ma anche tra i più poveri. Conosce l’importanza della terra, e della natura, Toledo, sa che non si deve andare contro di lei, snaturarla, cadendo vittime della globalizzazione, che tutto livella.
La mostra di Toledo fa parte di “Transiciones”, altra rassegna in cui si dipana il festival. Parte dall’idea evoluzionistica di Darwin: valutare il momento di transizione in cui viviamo, di adattamento/assestamento della natura e dell’uomo, e dove sta andando la nostra società.
È contro il mais transgenico, la mostra di Toledo. Come gran parte del popolo messicano. Se toccassero il grano dello stivale ci sarebbe un’indignazione del genere?
Tra quadri fatti di materiale povero e nobile che viene dalla terra, e che onorano lei e i suoi insetti umili, in una teca di vetro sono esposte delle bare di legno con dentro pannocchie, cadaveri di mais, fatte di panno.
Ci sono anche 43 foto, che vengono dal passato, di coloro che lavoravano il mais e i suoi derivati, ricolorate da Toledo con effetto magico e spettrale. 43, come i 43 di Ayotzinapa, i 43 studenti che studiavano per diventare maestri, e che dal 26 settembre 2014 sono desaparecidos. Sono stati ritrovati solo in sei, cadaveri e bruciati.
In occasione dell’inaugurazione del Cervantino il direttore Jorge Volpi ha fatto allusione al tema dei 43 e a quello dell’impunità che opprime il Paese. E durante il festival si è svolto un incontro all’Università di Guanajuato, con ospiti i loro genitori.
Bertha Nava, madre di Julio César Ramírez Nava, tra i sei ritrovati ammazzati, ha testimoniato la sua esperienza, trascinata dalle ali del dolore, caricando le sue parole di amarezza:
“La mia vita non m’importa, perché ha smesso di importarmi dal giorno in cui hanno ucciso mio figlio. E questo continuerà. Perché con questa rabbia, con questo coraggio, con questa ira lavorerò fino a che non si ritroveranno i 43 ragazzi, e i mille e mille che questo governo ci ha tolto, e i tanti ancora che detengono nelle carceri clandestine. Se voi non provate nulla per un’altra persona perché non fa parte della vostra famiglia, è un male, perché tutti abbiamo diritto ad una vita felice, a quei diritti umani di cui Peña Nieto ci priva e non gli importa… continuerà ad umiliarci se voi continuerete a dormire. Io no signori, se ci rimetterò la vita in questo cammino non m’importa, perché mi hanno tolto il tesoro più prezioso che potevo avere, mio figlio, perché il giorno che sono andata a riconoscerlo non mi hanno neppure permesso di abbracciare il mio piccolo… Però io continuo, con questa rabbia, e vado avanti, costi quel che costi”.
Scuotiamo la testa per un attimo per liberarci dagli incubi, e una notte, camminando per il festival, incappiamo nelle “Romanzas y canciones napolitanas” con cui Furio Zanasi al canto e Massimo Viazzo al piano, qui insieme anche per interpretare Schubert e continuare la loro tournée per il México, inaugurano “El Trasnoche” alla Meson de San Antonio. Il sorriso torna alto, alleggerendo per un po’ il cuore, facendoci sognare.
Vola alto, libero dalle corde della ragione, quando entriamo nell’Auditorium dello Stato per Candoco Dance Company e il suo “Let’s talk about dis”, di cui torneremo a parlare prossimamente.
E si lascia di nuovo abbracciare quando ci accomodiamo nella platea del Teatro Principal, in attesa di ammirare “The valley of astonishment” di Peter Brook.
Sul palco, tra i protagonisti della scena minimale, Sunny interpretata da una grande Kathryn Hunter, e il sorprendente Marcello Magni, compagni di palco e di vita. Magni, oltre che per il nome, non nasconde le sue origini neppure durante lo spettacolo citando l’incipit della “Divina Commedia”.
“La diversità è un limite o una risorsa?” fa eco dal palco questa domanda, dove coloro che dovrebbero produrre negli altri stupore, meraviglia, per le loro capacità sorprendenti, fuori dal “normale”, si possono trasformare in meri fenomeni da baraccone, a causa della piccolezza dell’uomo, e della loro stessa paura.
Viene da lontano il percorso, di cui fa parte questo stupore, che sembra rispondere al conflitto dichiarato da quella frase, lungo cui tutto il festival cammina in bilico, “La scienza dell’arte, L’arte della scienza”, che cerca solo pace tra i due lati della stessa medaglia: l’uomo.
Ce lo confida, raggiunto a fine spettacolo, Magni, italiano di Bergamo, da anni ormai lontano dalla patria.
Ci racconta che il suo inizio affonda nel 1991, quando Oliver Sacks consegnò a Peter Brook il libro “L’uomo che scambiò la moglie per un cappello”. È del 1993 lo spettacolo “L’homme qui…”, che si ispirava a quelle pagine. E da lì tutto sembra avere inizio, in questo viaggio nello stupore…
“La parola che Brook usa è Astonishment – prosegue Magni – ed è una parola che Peter stesso dice essere un po’ difficile da tradurre. Può essere stupore, può essere meraviglia. Ma quello che sento che sta ricercando è un’apertura, uno stato che si crea di fronte al miracolo che avviene. Ti può portare allo spirituale, o a una conoscenza talmente profonda di te stesso da non avere le parole per definirla. In quel momento tocchi un lato talmente personale, che è la vita, il significato dell’eternità, del dolore o della conoscenza, che va ad imprimersi profondamente nel modo in cui si deve affrontare, per me, la vita”.
Perché secondo lei, in un’edizione come questa del Cervantino, che investiga sulla relazione tra scienza ed arte, è stato invitato Peter Brook?
Non perché apra ad un livello scientifico, quanto piuttosto umano, verso la dimensione di scoperta del cervello. Sta ponendo un dubbio, una domanda, ci sta facendo pensare. Dopo l’ultima musica suonata, dopo l’Actus tragicus di Bach, cerchiamo di tenere un silenzio… Speriamo che ad ogni spettacolo il pubblico abbia tempo, in teatro e dopo, di rimanere con qualcosa che li abbia toccati. Per Peter questa è una cosa fondamentale, che lo spettacolo possa in qualche modo toccare, che ci sia un’identificazione con quello che sta succedendo.
In una scena così minimale, essenziale, com’è giocare/mettersi in scena (to play) con questo stupore?
Non è semplice per noi, perché stiamo recitando su un filo da equilibrista. Non c’è nulla in scena, delle volte ci sentiamo molto vulnerabili come attori: abbiamo solo noi stessi. Peter cerca in noi delle debolezze, affinché queste siano avvertite anche dal pubblico.
Nello spettacolo Sunny non riesce più a dimenticare, le tavole dei numeri le appaiono anche di notte. E ieri sera è venuta a teatro una madre con un figlio che ha 17 anni e si chiama Paco. La madre, Cinthia, ha dovuto stringere la mano di Kathryn in lacrime, perché si è probabilmente resa conto di colpo di quanta potenza, di quanto è grande e vasto il mondo interiore del figlio. Pur amandolo, è come se ieri sera tutto questo le si fosse aperto davanti agli occhi: si è resa conto che a momenti lo controlla, altri non lo capisce…
Questa è l’essenza di ciò che Peter Brook vuole raggiungere: che il pubblico possa trovare una connessione umana, personale e non concettuale; che si possa riconoscere, che dica “io ho le stesse domande, ho gli stessi problemi”. Ecco che allora il teatro ‘apre’ qualcosa.
Lo spettacolo finisce ma sembra non terminare, non offrendo risposte ai mille interrogativi che rimangono nell’aria.
Il fatto di non trovare risposte, e così facendo porsi dei limiti nel definire e definirsi, dev’essere una condizione costante per l’essere umano. Una persona può porsi solo nella predisposizione di farsi delle domande. Come succede ne “La Bataille” [lo spettacolo più recente di Brook, ndr]: dopo trent’anni, Peter riprende il Mahabharata, e con esso la questione della guerra, della violenza, della responsabilità delle persone che ci governano. Come si può governare sapendo che c’è la violenza? Dov’è l’essere umano che governa?
Si deve pensare che solo nell’evoluzione del proprio essere si potrà avere un mondo migliore; e senza avere degli assiomi, senza schierare credenze, fazioni, bandiere o religioni. Si deve essere aperti all’altro, e alla meravigliosità, all’astonishment inside the human being [allo stupore all’interno dell’essere umano, ndr].
Il cerchio sembra chiudersi mentre percorriamo in taxi la strada verso la Central de autobuses, lasciando il festival. Il taxista ci dice di essere un ignorante, ma che quello che ha capito del Cervantino, del teatro, dell’arte, è che ci sono Paesi che lottano, che si fanno la guerra in casa eppure che qui mangiano tutti insieme, senza conflitti, in pace, intorno al grande tavolo del festival.