E invece è un principe azzurro in piena regola, alla conquista della sua bella, e con un’impresa da favola: espugnare il castello per arrivare alla sua innamorata (che ancora non sa di esserlo).
L’avventurosa storia di Ciccio Méndez, disposto a tutto per amore, che sia nei confronti di una donna, del jazz o di un “Texas hamburger”, è la storia presentata da César Brie in “120 chili di jazz”, monologo scritto e interpretato dall’artista argentino e portato in scena al Campo Teatrale di Milano.
César Brie diverte (e si diverte), ma soprattutto coinvolge il pubblico nei panni di questo personaggio, passionale e appassionato, limitato per una stazza che lo esclude dai giochi, ma anche volutamente solitario, quando la fedeltà al cibo supera in genuinità l’amore per una sconosciuta.
Brie narra la storia di Ciccio partendo da un racconto frontale al pubblico, seduto su una sedia al centro del palco vuoto, aspettando il silenzio in sala per cominciare. Ben presto però, alle parole sostituisce immagini, e scatta in piedi per animare scene intere interpretate da lui solo, riuscendo a coinvolgere il pubblico nella storia, che procede in diretta. Come quando Ciccio, per entrare alla festa e vedere la sua innamorata, si finge contrabbassista del gruppo chiamato a suonare pur non sapendo suonare, e Brie rivive tutte le perizie. Presentare, e non rappresentare, è quello che César Brie realizza sul palcoscenico, in veste di uomo, e non di attore in costume. Interpretando con tutto se stesso comunica qualcosa che per lo spettatore diventa importante. Mettendo a disposizione se stesso, tra certezze e freni, interpreta le sue potenzialità umane e creative che, per lui, viaggiano insieme, da sempre.
La vita di Brie è una valigia incredibile, un guardaroba teatrale e insieme un bagaglio di esperienze storiche e sociali vissute da protagonista. La vita nomade dell’artista argentino si esprime scenicamente in un genere che ormai ha la personalissima forma di Brie, generata dalle esperienze teatrali incontrate, lasciate, ribattute e rivitalizzate. C’è l’attore-persona che si esprime nello spazio unico tipico della Commedia dell’Arte, e c’è la concezione dello spazio circolare e orizzontale, democratico, del cerchio medievale, in cui chi partecipa all’evento partecipa con chi agisce. C’è la coscienza del corpo dell’attore fisico, formato alle origini del teatro contemporaneo, e la sperimentazione continua delle potenzialità di espressione propria del teatro di ricerca. C’è anche e soprattutto la pura e sana incoscienza dell’attore che rincorre la libertà di espressione, una sorta di missione di coerenza, che garantisce coesione a gesti, parole e azioni, e concretezza, trasformando la drammaturgia in rivelazione.
“A qualsiasi campo della cultura umana essa appartenga l’opera è figlia del suo creatore-uomo” diceva Erich Neuman a proposito. César Brie inizia a fare teatro a diciassette anni, a Buenos Aires, da dove nel 1974 è costretto ad andarsene a causa delle persecuzioni della dittatura militare. Si trasferisce a Milano, poi in Danimarca, e nel 1991 in Bolivia. A seguito di un documentario (“Tahuamanu”, del 2008) in cui svela un massacro di contadini a opera degli squadristi legati ai proprietari terrieri, Brie, minacciato, è costretto a lasciare il Paese.
Eppure non rinuncia al suo motivo, tanto che, anche nell’ironica storia di Ciccio Mendez, trova il modo di citare la vicenda dei campesiños e far sapere delle minacce da lui ricevute: nella sua dichiarazione di poetica, infatti, il teatro non solo racconta, quindi documenta, ma restituisce dignità alle storie raccontate. Come “un minuto di silenzio”, la citazione è sapientemente dosata e versata nell’euforia diffusa da Ciccio e dalle sue peripezie amorose, musicali e culinarie. E il pubblico ringrazia.
120 CHILI DI JAZZ
di e con César Brie
produzione Cesar Brie – Arti e Spettacolo
durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 2′ 5”
Visto a Milano, Campo Teatrale, il 25 ottobre 2012