Con 50 anni di carriera alle spalle, il regista e drammaturgo argentino ripercorre il suo percorso artistico, dall’impegno politico alle esperienze che hanno segnato la sua poetica teatrale. Un’intervista in occasione della sua “personale” a Campo Teatrale
Un percorso che si intreccia con le sfide sociali e politiche, con la memoria e il corpo in scena: questo è il teatro di César Brie, sempre in ricerca, sempre pronto a confrontarsi con il presente.
Brie è un artista che ha trasformato il teatro in uno spazio di riflessione, lotta e resistenza. Con una carriera che attraversa diversi continenti e culture, il suo impegno politico e sociale è sempre stato al centro della sua ricerca artistica. Attore, regista e drammaturgo argentino, la sua poetica si nutre delle sue radici latinoamericane e della sua esperienza europea.
Oggi, a 50 anni di teatro, con la sua “personale” a Campo Teatrale (“Il mare in tasca”, “Re Lear è morto a Mosca”, “Nel tempo che ci resta”, “L’albero senza ombra”, “Ero“) Brie riflette sul suo lungo percorso e sul valore di uno spazio che ha accompagnato e sostenuto la sua visione.
In questa intervista esclusiva, Brie racconta la sua esperienza artistica, il legame con l’America Latina e con Campo Teatrale, la sua visione del “teatro politico”, e il futuro del teatro in un mondo in continua evoluzione.
César, la tua carriera ha attraversato diversi continenti e contesti culturali. In che modo il tuo peregrinare, anche per ragioni politiche, ha influenzato la tua visione del teatro e il tuo approccio alla creazione artistica?
Aver dovuto viaggiare, anche scappare, mi ha portato a imparare lingue, conoscere persone, e fidarmi del mio lavoro perché gli affetti erano lontani. È stato un modo di forgiarmi e aprirmi agli altri.
Come definisci il “teatro politico” oggi e quali sono le tematiche che ritieni più urgenti da portare in scena?
Non credo nel teatro politico (nel senso di giustificare il mio lavoro per i temi scelti). Il teatro è politico per come lo facciamo. È una questione etica di coerenza con la propria ricerca, di rispetto del tempo necessario a creare. Poi i temi cambiano e variano. Alcuni sono “politici”, altri intimi, altri sono riflessioni estetiche o interessi personali.
Il tuo percorso artistico è strettamente collegato con l’America Latina. In che modo la tua esperienza in questa parte del mondo ha plasmato la tua poetica teatrale e quale legame senti ancora oggi con le radici latinoamericane?
Latinoamerica è un continente con realtà culturali e sociali molto diverse e complesse. Mi sento legato alla mia terra d’origine, anche se come buon argentino discendo dalle navi: parenti italiani, inglesi, olandesi, francesi, gallesi, eppure sono latinoamericano. A Latinoamerica mi lega la lingua madre, lo spagnolo, le vicende politiche che mi coinvolgono e fanno trasalire, gli affetti (fratelli ed amici), il coraggio degli artisti che creano in condizioni difficili senza abbassare la testa.
Campo Teatrale è uno spazio che ha visto crescere e ospitare molti tuoi progetti. Cosa rappresenta per te questo luogo così particolare, con la sua dimensione intima e periferica?
Campo Teatrale è casa per me. Tutte le persone di Campo mi vogliono bene, mi aiutano. È il luogo dove posso rappresentare, dove sono accolto, e vengo anche “sopportato”. Credo di averli aiutati per ricambiare anche l’aiuto ricevuto sempre da loro. Ero proprio qui durante il lockdown. Era surreale avere tutto questo spazio a mia disposizione.
Come definiresti il tuo rapporto con i direttori di Campo Teatrale Marco Bolla e Donato Nubile?
Dal punto di vista umano sono due amici assoluti, e credo io lo sia per loro. Dal punto di vista artistico ci incontriamo, confrontiamo, abbiamo fatto insieme “Nel tempo che ci resta”. Siamo a volte d’accordo e a volte in disaccordo, ma sempre con rispetto, chiarezza, onestà e calore. Campo è un luogo “etico” per me, dove le scelte sono fatte per coerenza sempre prima della convenienza. L’Isola del teatro, nei colli piacentini, nasce anche dalla mia coscienza di essere troppo ingombrante per loro. Così, oggi, la mia Isola appartiene anche a loro e con il tempo faremo progetti di scambio organici e continuativi.
Quest’anno hai presentato una “personale” a Campo Teatrale. Cosa significa per te fare un “bilancio” in uno spazio che conosci bene e che, in qualche modo, rappresenta una parte della tua ricerca artistica?
Ho sofferto un po’ a dover ripristinare alcuni lavori, ma è stata una sofferenza fertile, perché ho fatto i conti con i miei vecchi lavori e affrontato le circostanze che li hanno creati e che li hanno anche fatti finire. Nel caso di “Ero”, sono felice di averlo rifatto. È uno dei miei assoli che amo di più.
Tra tutti i lavori, ce n’è uno che consideri particolarmente rappresentativo del tuo percorso?
Sicuramente “Ero”, un lavoro sul filo del rasoio tra il personale e l’universale. Per me è un antenato intimo di “Boccascena”, l’unico lavoro che non ho ripreso perché Attisani era malato nel momento di decidere quali sarebbero stati gli spettacoli da mostrare. Infatti, mi resta in questa retrospettiva da fare “Boccascena”, uno dei lavori che più ho amato fare nella mia vita.
Come descriveresti l’evoluzione della tua poetica teatrale, e quali sono gli elementi che ritieni costanti nelle tue opere?
Se non si cambia, non si va avanti. Si cambia per continuare ad essere se stessi. Oggi so comporre, ma saperlo fare non significa non mettermi in discussione quando lo faccio. Ho approfondito il lavoro sulle immagini, ho più cura del lavoro dei testi, ai quali faccio fare una doppia verifica. Nati per la scena, poi devono anche diventare impeccabili sulla carta. Lavoro e voglio lavorare di più con molte persone. Il lavoro collettivo è necessario, appassionante e arricchente.
E infatti hai lavorato con molti artisti. Quali sono quelli che ti hanno lasciato più tracce?
Iben Nagel Rasmussen, la mia maestra. Danio Manfredini, uno dei primi miei allievi, che è diventato un maestro e un artista unico. Antonio Attisani, che è per me la persona più rigorosa e onesta intellettualmente che io conosca. Tadeusz Kantor, il cui teatro mi segnò in giovinezza. Pina Bausch con i suoi lavori straordinari e la sua forma di montaggio delle azioni così personale, che mi ha aperto la testa. Poi, la semplicità e grandezza di Arianne Mnouchkine e Peter Brook. E ancora: Grotowski, la sua radicalità e dedizione; Gonzalo Callejas, scenografo e immenso attore boliviano, che è stato mio allievo ed è diventato un maestro; Lucas Achirico, idem; Pablo Brie, mio nipote e il “mio” compositore di fiducia; Mauricio Dayub, un grandissimo attore argentino che mi ha dato fiducia e con il quale collaboro spesso e ammiro sulla scena. Gli artisti giovani e vecchi che ogni tanto vedo e che mi danno folgorazioni sulla scena. E poi gli attori giovani con i quali lavoro, che mi obbligano a mettermi in discussione, e i cui nomi appaiono negli spettacoli che faccio e che ho fatto con loro in questi anni.
Infine, come vedi il futuro del teatro in un mondo che cambia rapidamente?
Il teatro deve continuare a essere teatro. Un luogo dove si crea in modo povero, dedicandogli del tempo. Il teatro non deve cambiare direzione, anzi, si deve scuotere di dosso tutto l’inutile con cui, da sempre, si cerca di travestirlo e farlo diventare la brutta copia di se stesso.