Eccoci ad una nuova puntata del nostro percorso di approfondimento sulle motivazioni e gli approcci alla danza delle nuove generazioni di artiste. Ed ecco quindi un’altra giovane performer, Claudia Rossi Valli che, prima di fondare con Tommaso Monza la sua compagnia Natiscalzi Danza Teatro, con la quale firma come coreografa e danzatrice diverse originali creazioni, si forma all’estero studiando in Germania con la Willian Forsythe Company e in Inghilterra con la Retina Dance Company e l’Ampersandance Youth Company, e in Italia con MK di Michele Di Stefano e la Compagnia Abbondanza/Bertoni, per la quale la ricordiamo in scena nel meraviglioso “La morte e la fanciulla”, diventandone artista associata.
Nel 2012 vince una borsa di studio per ADF American Dance Festival dove viene selezionata per interpretare, con la compagnia Shen Wei Dance Arts, “Undivided/Divided” riallestito per il North Carolina Museum of Art.
Come interprete danza per la compagnia svizzera di Tiziana Arnaboldi dal 2014 al 2017, e con la compagnia di Roberto Zappalà nelle produzioni “La Nona”, spettacolo vincitore Danza&Danza migliore produzione 2015, “Lava Bubbles” e “I Am Beautiful”.
Parallelamente all’attività da interprete, Claudia porta avanti il proprio interesse per la coreografia.
In questo ambito è ospite ad Agòra Coaching Project di Michele Merola nel 2013/14 e nel 2015 partecipa come giovane coreografa a GD’A/Nuove Traiettorie/Rete Anticorpi XL.
Nel 2015 firma insieme a Silvia Dezulian “Arborea”, spettacolo prodotto da MUSE Museo delle Scienze di Trento. E firma insieme al fotografo Pietro Firrincieli il corto “Saettanti boummm”, che vince il premio speciale alla produzione La Danza In Un Minuto/Coorpi 2017 e il premio come miglior film Under 35 al Fuori Formato Festival 2018.
Come molte tue colleghe ti sei formata soprattutto all’estero.
Sono uscita dall’Accademia impaziente di conoscere e scoprire il mondo e la danza che lo attraversa. Desideravo andare a toccare con mano ed esperire con il corpo ciò che avevo studiato nei libri, i nomi che hanno fatto la storia della danza. Volevo avvicinarmi alla sorgente. Così ho dedicato a me stessa un paio di anni per viaggiare ed incontrare: la mia esperienza più importante è stata negli Stati Uniti all’American Dance Festival, dove ho potuto studiare con i danzatori di Merce Cunningham, Martha Graham, Trisha Brown… Sembra forse un’ovvietà, ma ascoltando le parole esatte con cui la danza è stata trasmessa dai Maestri, il corpo si plasma in modo più intimo e radicale. Come guardare un dipinto originale di un celebre pittore invece che ammirarlo in un poster riprodotto.
Quali sono le differenze tra il nostro Paese e gli altri?
Ciò che ho sperimentato in America e anche in Europa è una facilità di fruizione della danza molto più elevata rispetto all’Italia. Non solo c’è più varietà e più proposta, ma anche una maggior fluidità nel poter frequentare i corsi, nel poter assaggiare questo e quell’altro, tutto proposto con la stessa attenzione e qualità. Una situazione perfetta per un giovane danzatore ancora alla scoperta di sé stesso che si sperimenta.
Come mai la danza contemporanea in Italia, a parte alcune eccezioni, è percepita come di nicchia?
Credo che purtroppo le ragioni siano molteplici e che la responsabilità arrivi da più fronti: sicuramente c’è un non-interesse nel nostro Paese (parlo di politiche culturali) nell’investire in una fruizione più ampia della danza. Tutti noi sappiamo quanto sia svilente raccontare il nostro mestiere ad interlocutori che hanno come soli riferimenti i vari talent seguiti in tv. Ma quando mi accorgo che esiste questo forte gap, non posso non domandarmi se una fetta di responsabilità non l’abbiamo forse anche noi stessi artisti, organizzatori, festival. “Io non ne capisco di danza” è la risposta che spesso mi sento rivolgere quando mi presento a qualcuno al di fuori del nostro circuito. E in questa frase c’è già un misunderstanding di base, forse figlio di una proposta di coreografia che troppo poco parla alle emozioni e molto all’intelletto. Diversi anni fa ho letto una frase di Claude Monet, che cerco sempre di tenere a mente quando danzo, creo o guardo: “Tutti mi chiedono di capire, quando basterebbe solo amare”. L’arte, e soprattutto il teatro, nasce come rito comunitario, come momento collettivo; forse la danza contemporanea italiana si è dimenticata in parte di questo cuore originario. Forse dovremmo fare un passo indietro, una pausa dal nostro vorticare intellettivo, e riconsiderare, oggi più che mai, in questo panorama di solitudini ingigantite, quale sia il nostro ruolo di artisti nella comunità.
Si parla di teatro e danza nel nome della tua compagnia: in che modo secondo te si possono collegare questi due linguaggi?
Domanda molto complessa e stimolante, a cui tento di rispondere attraverso la mia esperienza personale.
Mi sono accorta con il tempo che, da spettatrice, ho bisogno che uno spettacolo mi sconvolga, mi rapisca e mi restituisca diversa da come ero all’inizio della visione. Il teatro danza rende questo processo catartico più avverabile, forse perché in esso c’è più libertà di passaggio da un linguaggio all’altro, meno limiti di codici, più permeabilità; l’interesse si sposta dalla grafia del gesto all’essenza di quest’ultimo, dal come al perché del movimento. Dal fare all’essere. Sento lo spettacolo di teatro danza come un’opera completa, più appagante, che attinge ad un più vasto bacino di risorse personali ed universali, una porta che mi invita ad entrare ed esplorare me stessa e il mondo, sia da interprete che da autrice o spettatrice.
Tu hai danzato nuda e anche visibilmente incinta. Come ti sei posta in quei due diversi momenti?
Condividere il palco con le mie splendide colleghe Eleonora Chiocchini e Valentina Dal Mas completamente nude ne “La Morte e la Fanciulla” di Abbondanza/Bertoni è un privilegio immenso, perché in quel momento mi sembra di arrivare a toccare l’essenza della vita, la sua concretezza ed insieme spiritualità. La commozione di essere “veramente vera” nel movimento che sto tracciando.
Lo stesso vale nella scelta che, come Natiscalzi DT, abbiamo fatto di mettermi in scena all’ottavo mese di gravidanza nel nostro spettacolo “Mary’s Bath” che parla appunto di maternità. Ci è sembrato splendido poter far coincidere in quel momento arte e vita, consci che quella situazione non si sarebbe mai più ripresentata, e trovando nella irripetibilità di quel momento il suo valore aggiunto, nell’incontro perfetto tra finzione e verità.
In che modo il corpo può trasmettere emozioni al di là del gesto danzato?
Come danzatrice, il corpo è il mio punto di partenza. E’ uno strumento organico che porta con sé tutta la bellezza struggente della vita e del suo fluire. A differenza dello strumento musicale di un musicista, o del pennello di un pittore, il corpo non ci abbandona mai, è con noi prima, durante e dopo lo spettacolo. Il corpo porta con sé la nostra verità, il nostro qui e ora di esseri mortali.
Come definiresti il modo di porre la danza di Natiscalzi DT, compagnia tua e del tuo compagno?
Come Natiscalzi DT, Tommaso ed io cerchiamo di proporre un’arte del movimento che sia non solo significante, ma anche pregna di significato. Io e lui arriviamo da percorsi molto diversi e portiamo nel nostro lavoro interessi differenti. Questo ci permette di articolare il nostro materiale in soluzioni spesso inaspettate. Amiamo raccontare con la nostra arte storie, leggende e memorie, per passare dal personale all’universale. Ci piace anche studiare e rivolgerci ad artisti che hanno scritto la storia dell’arte molto prima di noi, per scoprire come uno stesso soggetto sia stato declinato in modo diverso nel corso degli anni o in diverse culture. Per questo ci divertiamo a muoverci tra linguaggi classici e riferimenti pop, tra lirismo e ironia, cercando sempre una nostra originalità nel gesto semantico.
Quali sono i vostri progetti futuri? Dopo la pandemia, sarà cambiato qualcosa?
In questo momento i nostri progetti futuri si rivolgono principalmente al radicamento del lavoro sul territorio: forse proprio perché ci affacciamo ad un panorama sociale e culturale sconvolto e cambiato, sentiamo il desiderio di farci portavoce, come artisti, di una rete sociale e del bisogno di comunità che la pandemia ha disgregato.