Come tremano le cose riflesse nell’acqua. In dialogo con Liv Ferracchiati

Da sx Panelli, Zandonella, Semino Favro, Quaglia, Latini, Marinoni, Valentina (ph: Masiar Pasquali)
Da sx Panelli, Zandonella, Semino Favro, Quaglia, Latini, Marinoni, Valentina (ph: Masiar Pasquali)

Da “Il gabbiano” di Cechov un nuovo allestimento prodotto dal Piccolo Teatro di Milano

Dopo aver visitato negli anni scorsi, con la sua originale sensibilità, “Hedda Gabler” di Ibsen e “Platonov” di Cechov, Liv Ferracchiati, coadiuvato dal mentore Fausto Malcovati (sempre necessario per inoltrarsi nell’anima letteraria russa), si avvicina ancora deferentemente al drammaturgo russo, autore sempre amatissimo vista la proficua quantità degli adattamenti presenti sulle scene del nostro Paese.
Il testo scelto da Ferracchiati stavolta è “Il gabbiano” (Čajka 1895), rimodulato in modo non didascalico sui nostri tempi, proprio perché i sentimenti che attraversano il celebre drammaturgo ci “segnano” ancora.

La vicenda si svolge, per tutti e quattro gli atti, interamente nello stesso luogo, quella tenuta di Piotr Nikolaevic Sorin situata sulle sponde di un lago. Il lago del resto è una componente fondamentale nella creazione di Ferracchiati, e non per caso lo spettacolo è intitolato “Come tremano le cose riflesse nell’acqua”; e nel corso del tempo vedremo che non solo le cose, ma anche le anime degli umani saranno tremolanti. Infatti l’acqua che ci appare per molto tempo nella bellissima scenografia costruita da Giuseppe Stellato, con i suoi riflessi e l’atmosfera cangiante, segue anche emozionalmente i personaggi, dando respiro alle loro azioni.

Su questo lago ritroviamo, pur catapultati nel sentire contemporaneo, tutti i personaggi del dramma cechoviano, anche senza essere evocati con la loro vera identità: la sorella di Sorin, Arkadina, attrice ormai in declino, il suo amante, il romanziere Trigorin, Kostja, il figlio della donna, che nel suo impeto giovanile vuole dare un colpo al passato reinventando un’innovativa forma teatrale, Nina (l’unica a cui viene assegnato il nome di riferimento) che, spinta amorevolmente dal ragazzo, vorrebbe ardentemente fare l’attrice; e ancora il tenero, nella sua insicurezza, maestro elementare, Medvedenko, innamorato di Masa, figlia dell’amministratore della tenuta; il tenente in congedo Samraev, e il medico Evgenij Dorn (Marco Quaglia). Tutte anime tremolanti, mosse dal desiderio di cambiare vita, ma che alla fine devono accettare il male minore, ossia accontentandosi delle loro minuscole soddisfazioni. Sono anime che parlano cercando di dialogare con gli altri, ma che non si ascoltano mai tra loro, come avviene in un bellissimo momento della creazione di Ferracchiati.
Non così Kostja, che desidera ascoltare, vivere, che non vuole accontentarsi del minimo e che quindi, alla fine, preferirà uccidersi.

Al centro dell’indagine cechoviana, che si riverbera pienamente nell’analisi riproposta da Ferracchiati, abbiamo la figura del giovane scrittore che, plasmandosi anche sugli altri personaggi, diventa l’emblema dell’intellettuale e della sua funzione nella società, di cosa sia necessario dire con la propria arte, come dirlo e a chi. Kostja si ucciderà anche perché disturbato dall’assenza di talento attorno a sé, e forse anche per la sua incapacità di esprimerlo compiutamente, in un mondo siffatto. Il giovane è ossessionato da una madre sempre in conflitto con lui (eccellente, nella parte, Laura Marinoni, che non ci fa rimpiangere minimamente le decine di Arkadina viste in questo ruolo): è lei a farsi beffe della sua arte, sempre in cerca di una parte importante che forse non avrà mai.
Kostja viene messo in competizione con Trigorin, interpretato con giusta trasandatezza da Roberto Latini, che pavoneggiandosi, si crede uno scrittore già arrivato, ma che invece di osservare in profondità il mondo che lo circonda, passa il tempo a pescare e a corteggiare, con malcelata insistenza, Nina, anch’essa disillusa da un’arte che non parla più a nessuno, gabbiano impagliato che non riesce più a volare.

Ecco dunque farsi avanti prepotentemente il conflitto generazionale con Kostja (Giovanni Cannata), che per tre volte vediamo con una bandana in testa, chiaro omaggio a Foster Wallace (ma ci sono riferimenti anche a Maupassant e Ungaretti) e Nina (Petra Valentini) i quali, all’inizio al buio e alla fine in un paesaggio innevato, ci chiedono spazio, domandano aria da respirare a pieni polmoni per ritornare a volare, perché non ne possono più della nostra mediocrità, del nostro accettare, di ogni cosa, solo il minimo possibile.
Rimangono da soli, Kostja e Nina, mentre i servi di scena, con bella invenzione, liberano tutto il palcoscenico del Teatro Melato, lasciando solo una cattedra per Arkadina, che ancora una volta non riesce a comprendere le motivazioni del figlio, e un piccolo sofà in cui Sorin (Nicola Pannelli) potrà finalmente morire in pace.

In questa tenera e insoddisfatta melanconia riusciamo anche a sorridere sulle note di Luigi Tenco e del suo “Mi sono innamorato di te”, che Medvedenko (Cristian Zandonella), il tenero maestro, intona per la sua Masa (Camilla Semino Favro), la ragazza che finirà incautamente per sposare, e le cui parole possono benissimo riferirsi a tutti i personaggi in scena: “Il giorno volevo qualcuno da incontrare / La notte volevo qualcosa da sognare”.

Con “Come tremano le cose riflesse nell’acqua” (in scena al Piccolo di Milano fino al 25 febbraio) Liv Ferracchiati imbastisce il suo spettacolo più esemplare e raffinato, riconsegnandoci un Cechov impregnato sagacemente e con intelligenza drammaturgica di straordinaria attualità, a cui le luci di Emiliano Austeri e i costumi di Gianluca Sbicca riescono a dare perfetta sostanza.

Abbiamo intervistato Liv Ferracchiati sia per confrontarci su tutta la sua poetica, sia per approfondire la sua messa in scena dello spettacolo.

Cos’è cambiato per Liv dalla “Trilogia sull’identità”, quando ti ho conosciuto per la prima volta, ad oggi?
L’esperienza. Ora sono pienamente consapevole di quello che costruisco scenicamente e drammaturgicamente, e soprattutto sono consapevole della ricaduta esterna. Questo è un bene, ma anche un male. È una consapevolezza che è diventata, a tratti, un blocco per la creatività.
Ora sento di essere più capace di rimanere in ascolto di me stesso, facendomi carico con coscienza delle possibili conseguenze. Credo che sia necessario avere un’etica e degli obiettivi nella ricerca artistica e perseguirli in tutta onestà, sia quel che sia.
Quando ho strutturato la “Trilogia sull’identità” non avrei mai immaginato che il tema, in relazione ai tempi e alla nostra società, portasse a tanti fraintendimenti sul mio lavoro e su di me come persona. E mai avrei creduto che il tema dell’“identità” potesse essere così banalizzato e reso pretestuoso. Per esempio, per me è inconcepibile che parlare di “identità” per molti significhi parlare di “minoranze”, o ancora peggio significhi scendere nell’“autobiografia”. Per me parlare di “identità” significa affrontare un tema enorme, equiparabile a temi come amore, morte, guerra, vita… significa analizzare quali sono le forme attraverso cui comunichiamo e ci comunichiamo agli altri, è un tema non di nicchia, ma al contrario universale, che riguarda maggioranze e minoranze.
Rimpicciolire l’argomento, e ancora peggio legarlo alla mia autobiografia, quando mai avevo dichiarato da qualche parte che lo fosse, è stata una fonte di sofferenza. Ancora oggi mi trovo a leggere articoli che fanno riferimento a me come “regista gender”. Andando oltre al fatto che è una dicitura che non significa niente, proprio a livello di scelta dei vocaboli, è un grave campanello dall’allarme rispetto al fatto che un autore che non rientra in un “canone dato” (dato da chi, poi…) debba essere etichettato sempre e comunque, anche a sproposito, per un tratto della sua esperienza personale, anche quando si occupa di tutt’altro.
A chi rientra nel “canone dato” non succede, e onestamente non ci sto: non rimango buono e zitto.
È molto grave perché oggi succede a me, domani sarà un altro ad essere “discriminato”.

In passato hai rivisitato due altri testi classici, “Platonov” e “Hedda Gabler”. Cosa ti aveva interessato in quei due testi? Vi era ancora il tema dell’identità, come qualcuno aveva osservato?
La parola identità può includere quasi ogni argomento, ma non era un tema presente né in “Platonov”, né in “Hedda Gabler”.
“Platonov” (il titolo della mia ri-elaborazione è “La tragedia è finita, Platonov”) aveva questo tema: come un’opera d’arte può influenzare concretamente la vita di un fruitore. Allora avevamo il personaggio del “Lettore”, così si chiamava, che leggeva e rileggeva il primo testo scritto da Čechov, e vedevamo in scena come se lo immaginava, come dialogava con i suoi protagonisti e alcune interferenze dalla sua vita rette da parallelismi con l’opera in questione.
Credo che il fraintendimento nasca dal fatto che ero in scena io, ma la mia sola presenza non dovrebbe di per sé comportare un tema.
In “Hedda. Gabler. Come una pistola carica” c’era una riflessione sull’arte come sublimazione di due istanze filosofiche che avevo rintracciato all’interno del testo e dell’intera poetica ibseniana, quella dionisiaca e quella apollinea, per dirlo al modo di Nietzsche. In sostanza, l’arte come scelta di una forma per suggellare l’apollineo e incanalare il dionisiaco.

Questa volta non sei in scena. Come ti senti nel dover dirigere attori come Laura Marinoni e Roberto Latini?
Bene, molto bene. Torno all’origine, la maggior parte dei miei lavori sono senza me in scena. E mi piace molto essere esterno. Relazionarsi ad interpreti come Laura Marinoni, Roberto Latini, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini e anche con gli esordienti Giovanni Cannata e Cristian Zandonella è un privilegio, e per certi versi rende più facile l’operazione di sovrascrittura che compio registicamente nella direzione dell’attore.
È stato un lavoro arricchente e anche divertente, fatto insieme ad un gruppo di attori talentosi e dotati di grande intelligenza scenica e generosità, completamente immersi in un lavoro collettivo, senza protagonismi e a servizio della parola scritta.

Come hai lavorato con loro e con Fausto Malcovati?
Fausto, al quale sono infinitamente grato, è stato una sorta di interprete metaforico tra noi e Čechov, ci ha messo in contatto con la lingua originale e l’umanità dell’autore. Grazie a lui abbiamo tradotto appositamente “Il gabbiano” per studiare i diversi modi di parlare dei personaggi e letto molte lettere. Insomma, Fausto portava con sé Čechov e lo faceva sedere al tavolo con noi.

Perché ancora Cechov?
Perché ci sono autori che ti corrispondono più di altri, e perché mi sembra di poter continuare il mio percorso tematico attraversando i temi di Čechov.

Al centro c’è anche oggi, come allora, la figura dell’intellettuale e il suo rapporto con la realtà. La parola e il pugno, in questo senso, sono importanti.
Il pugno è una delle prime immagini che ho avuto. Un pugno sul tavolo è qualcosa per scuotere quel che c’è intorno e anche sé stessi. In questo caso è un’immagine che racconta la volontà, forse utopica, del Figlio (parallelismo con Kostja) di influenzare la realtà circostante, mi verrebbe da dire quasi a livello metafisico. Un po’ come prova goffamente a spiegare il Maestro (parallelismo con Medvedenko) quando dice che la nostra immaginazione influenza gli atomi e gli atomi, che sono materiali, condizionano la realtà con i loro micro-cambiamenti.
In “Come tremano le cose riflesse nell’acqua” il fuoco tematico è sul rapporto madre-figlio, tanto che la scena della bendatura, dalla quale si origina la mia riscrittura, è triplicata. Lo spettacolo si apre con il Figlio che ha già la testa fasciata, e poi assistiamo nel terzo atto a due scene di medicazione, con Nina e con la madre, in apertura e chiusura.
Ad ogni modo, sì, per forza di cosa si parla anche del ruolo dell’artista oggi, perché era centrale anche per Čechov, e se ne parla ricalcando quelle che erano le sue idee e sensazioni. Nelle lettere si scagliava contro la banalità imperante, contro l’ovvietà spacciata per genio e anche contro l’assenza di strumenti per decifrare quel che vale e quel che, invece, sarebbe meglio passasse il più inosservato possibile.

Un altro tema è il confitto intergenerazionale. Kostja, per affermarsi, deve uccidersi anche oggi?
Credo che la riflessione in senso ampio sia sull’assenza di talento e le logiche di sistema che incensano senza avere forse gli strumenti per comprendere quello che hanno di fronte. Ci sono lettere avvelenate di Čechov contro la critica del tempo. Ad ogni modo, Kostja non si uccide perché circondato da incapaci, si uccide perché capisce di essere lui stesso incapace e non lo accetta, questo accade sia nella mia riscrittura che nel testo originale.
All’inizio del dramma crede di poter rivoluzionare il mondo, di apportare nuove forme, poi però cerca riconoscimento, dalla madre e dalla società artistica, e questo è in conflitto. La nuova forma è utopica, perché puoi veicolarla solo accettando un prezzo piuttosto alto da pagare: il non riconoscimento. Ogni volta che una nuova forma è apprezzata e capìta non è più nuova, è già diventata canone.
Kostja si spara perché non ha la forza di sostenere questo paradosso, non sa scrivere senza riconoscimento, ma allo stesso tempo non vuole diventare il prossimo Trigorin e sancisce con la morte il rifiuto dell’ovvietà.

Utilizzi molto anche l’ironia…
Sì, certo, forse a tratti è più una sorta di comicità. Anche se oggi credo ci siano molti fraintendimenti rispetto all’“ironia”, che spesso viene considerata una via facile. Il discorso sarebbe ampio, ma credo che l’ironia, se accompagna a una visione più profonda, non sia facile, anzi richieda una profonda maestria di scrittura per essere funzionale e funzionante.
In questo caso si tratta dell’eco della scrittura di Čechov. Čechov nei suoi drammi, così come nei suoi racconti, così come emerge anche dalle lettere che scrive, era una persona di grande ironia. Nelle sue drammaturgie ci sono anche cambi di registro repentini che virano, come curve a gomito, dal tragico al comico, a volte sono volutamente scritte con un registro che, ad essere definito, potrebbe dirsi tragicomico. “Il gabbiano” in particolare è da lui indicato come “Commedia in quattro atti”, dunque l’ironia, o meglio, una scrittura che susciti riso, è nelle opportunità dei suoi materiali, anzi, era da lui stesso auspicata anche nelle messinscena dei suoi testi.

Foster Wallace e Maupassant. Perché?
Maupassant perché è presente nel “Gabbiano”. Nel secondo atto originale c’è la lettura all’aperto che Arkadina e Dorn allestiscono per intrattenersi. In quel caso il racconto che viene letto è “Sull’acqua”, ed è interessante leggerlo per intero perché ci si ritrovano dialoghi e situazioni che ricordano un’altra scena del secondo atto, quella tra Nina e Trigorin.
Sappiamo che Čechov prendeva dagli altri autori, li metabolizzava e, in qualche modo, li riscriveva. Non a caso si può affermare che “Il gabbiano” sia la più riuscita riscrittura dell’“Amleto” shakespiriano. Nel mio testo il racconto di Maupassant letto è “La madre dei mostri”, perché tematicamente legato al fuoco madre-figlio.
Wallace invece è un autore che amo molto e così, rileggendolo, mi è tornato in mente un racconto del 2008, “Caro vecchio neon”, scritto poco prima che morisse, dove c’è un personaggio che racconta post-mortem come è arrivato al suicidio. Si uccide perché si rende conto di non riuscire ad agire se non per ottenere un qualche riconoscimento, e mentre sta per compiere il gesto estremo gli sembra che intorno a lui tutto tremi “come tremano le cose riflesse nell’acqua”.

COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA (čajka)
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
drammaturgia e regia Liv Ferracchiati
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suoni spallarossa
video Alessandro Papa
consulenza letteraria Fausto Malcovati
con (in ordine alfabetico): Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontaria alla regia Eliana Rotella
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
foto di scena Masiar Pasquali

durata: 2h 15′ senza intervallo

Visto a Milano, Piccolo Teatro, il 1° febbraio 2024

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