Con il vostro irridente silenzio: Gifuni, Aldo Moro e le ceneri della Prima Repubblica

Fabrizio Gifuni (ph: Studio Musaccio, Ianniello & Pasqualini)
Fabrizio Gifuni (ph: Studio Musaccio, Ianniello & Pasqualini)

Al Franco Parenti di Milano, il Memoriale dello statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse nel maggio 1978

Aggiunge un fremito a ogni parola che pronuncia, Fabrizio Gifuni. Ne fa carne e sangue in un gioco di specchi. O piuttosto – come anticipa lui presentando il lavoro – è una “questione di spettri”. Perché di questo tratta il monologo “Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro”, andato in scena nel secondo weekend di gennaio al Teatro Franco Parenti di Milano.

Parlando di spettri a teatro, Gifuni pensa agli ectoplasmi di Shakespeare: le vittime di Riccardo III, lo spirito di Amleto, il fantasma di Banquo in “Macbeth”. Oppure ai “Sei personaggi” pirandelliani. Ma, soprattutto, Gifuni pensa a quei cadaveri senza degna sepoltura, relitti di una memoria violata: a Pasolini, oggetto del monologo “Il mare dei ricci. Ragazzi di vita e altre visioni”; e appunto, Aldo Moro.

Moro e Pasolini, ovvero la cattiva coscienza dell’Italia: profeti di una società sfiancata, censori di una classe dirigente da dimenticare.
Sodale del “compromesso storico”, pronubo dei governi di solidarietà nazionale, Moro prefigurava nell’Europa della Guerra Fredda e nell’Italia della Nato, il primo governo democristiano sostenuto dai comunisti. Moro stringeva la mano a Enrico Berlinguer, segretario del PCI. L’alleanza esacerbò una sinistra extraparlamentare sempre più antagonista ed eversiva, mentre l’America maccartista e correa del golpe cileno operava per la destituzione di Moro.

È qui che entra in gioco Gifuni. Che ricostruisce i 55 giorni di prigionia del leader democristiano dalla strage di via Fani (16 marzo 1978) al sequestro a opera delle Brigate Rosse, fino alla condanna a morte e al ritrovamento del suo cadavere, il successivo 9 maggio.
Gifuni restituisce l’identità a un corpo celebrato dagli artisti e dimenticato dalle istituzioni. Lo spirito di Moro si coagula nelle parole, quelle del memoriale ritrovato a Milano in via Monte Nevoso, nell’ottobre 1990.
Il memoriale si compone di quarantanove fogli dattiloscritti: lettere vergate in maniera febbrile, dirette alla moglie Noretta, ai figli Maria Fida, Agnese, Anna e Giovanni, al nipote Luca. E poi quelle indirizzate ai compagni di partito, il segretario Zaccagnini, il ministro dell’Interno Cossiga, il luciferino Andreotti, presidente del Consiglio, garante di facciata di quelle “convergenze parallele” che nacquero e abortirono proprio tra via Fani e via Caetani, dove fu ritrovato il corpo di Moro in una Renault 4, a due passi dalle sedi del PCI e della DC.

Nel rettangolo di fogli che è la scena, Gifuni si presenta in camicia bianca e abito scuro, pantaloni gessati e una barba di più giorni. Il suo è un viso cereo, come quello che di Moro ci consegnarono le foto dei terroristi davanti alla stella a cinque punte delle Brigate Rosse, in un rituale macabro che preludeva alla morte.

Le lettere sono un atto d’accusa a un sistema e a una classe dirigente. Dipingono un quadro scioccante della DC e della Prima Repubblica. In controluce, Moro denunciava l’Italia dei complotti e delle stragi. E poi le connivenze, gli scheletri nell’armadio di un Paese asservito alla CIA.
Il memoriale di Moro era alla portata di tutti, eppure dopo il ritrovamento fu dimenticato e quasi insabbiato. Era l’anno successivo alla caduta del Muro di Berlino. Quelle lettere anticipano di tre lustri Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica.

In scena, Gifuni deposita la giacca davanti a un leggio. Il pavimento è un cimitero di fogli sparsi. In mezzo, un cumulo di sabbia.
Le lettere sono respiro, affanno, carne maciullata. Sono supplica e denuncia. Lo stato rimase inerte. «Con il vostro irridente silenzio – proruppe Moro rivolto a Zaccagnini – avete offeso la mia persona e la mia famiglia, con l’assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia ch’è la nostra legge».
La DC, la politica tutta con rare eccezioni, decretò la morte di Moro. Le Brigate Rosse ne avevano proposto il rilascio in cambio di alcuni detenuti rinchiusi nelle patrie galere. Lo stato optò per la strategia della fermezza. Solo nell’affaire Moro si dimostrò rigorosa l’Italietta del sotterfugio e delle reticenze, dell’omertà e del quieto vivere.

Gifuni legge le missive senza fiato, una attaccata all’altra. La narrazione è climax, è apnea. Il crescendo emozionale annichilisce il pubblico. Il corpo dell’artista si svuota. L’anima si consuma. L’accento, il tono della voce, enfatizzano ogni sillaba. Lettera dopo lettera, snoccioliamo il passare dei giorni, scanditi come da una clessidra. Il monologo è una bomba a orologeria. Trasaliamo. Tastiamo lo scoramento di un uomo buono azzannato da lupi travestiti da agnelli.
Senza musica, con poche luci, con rari sfumati cromatici, Gifuni ci consegna lo scheletro di un uomo e il fantasma di una nazione. I compagni di partito si piegarono alla ragion di stato. “Moro è qui con tutta la DC” scandirono nei giorni dei funerali i sostenitori democristiani davanti al partito in gran parata. Non era vero. Moro era stato abbandonato.

La forza della parola è dirompente. Il gioco di spettri è anche con il pubblico. I polmoni respirano all’unisono. Gli spettatori trattengono il fiato. L’interazione è con i ricordi. Il teatro diventa spazio di cittadinanza e piazza aperta sulla città.
“Con il vostro irridente silenzio” è un lavoro politico. Ciascuno fa i conti con un passato tragico e un lutto mai elaborato. La standing ovation finale è un tributo al personaggio e all’attore. Ma anche un omaggio al teatro, che sa ricordare più della politica; e più della storia è capace di riabilitare la memoria così da non trasformarla in archeologia.

Con il vostro irridente silenzio
Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro
ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni
si ringraziano Nicola Lagioia e il Salone internazionale del Libro di Torino,
Christian Raimo per la collaborazione, Francesco Maria Biscione e Miguel Gotor per la consulenza storica
produzione Cadmo

durata: 2h
applausi del pubblico: 5’

Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 12 gennaio 2024

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