Cristiani, Fortuni, Bersani, Piton: la poetica dei corpi in chiusura di Danae 24

Sottobosco (ph: Sara Meliti)
Sottobosco (ph: Sara Meliti)

Al festival delle Moire anche la critica alla società dello spettacolo di TeatrInGestazione e gli amori tragicomici di Rita Frongia e Paola Tintinelli

«Un giardino per camminare e l’immensità per sognare – cos’altro si potrebbe chiedere? I fiori ai suoi piedi, e sopra le stelle» (Victor Hugo).
È il giardino il filo conduttore della XXVI edizione di Danae. Il festival milanese di Teatro delle Moire, sospeso in una visione utopica dell’arte, si conferma ottimo strumento d’osservazione del teatro performativo, offrendo creazioni in cui la danza interagisce con altri linguaggi.

“Lingua” di Alessandra Cristiani è la seconda tappa di una trilogia che indaga la questione del linguaggio corporeo. Il lavoro è un omaggio alla vita e all’opera della scrittrice, fotografa e attrice Lucy Renée Mathilde Schwob, in arte Claude Cahun, vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Partendo da un assunto della grande intellettuale («L’arte non è un mezzo di fuga, ma un laboratorio performativo e performante dove il corpo si espone, mette in scena le sue latenze, l’intuizione di nature altre») Cristiani, sulle musiche di Ivan Macera e Alessandro Cortini, con le evocative luci di Gianni Staropoli, presenta il proprio corpo nudo. All’inizio la vediamo simile a una statua di marmo, distesa di schiena in fondo allo spazio scenico. Misteriosamente, si muove attraverso piccoli gesti di grande intensità. In un’attesa carica d’emozione, si volta, mostrandosi interamente allo sguardo del pubblico. Ecco che l’artista poi, armatasi di un piccolo pennarello nero, incomincia a scrivere sul proprio corpo frasi di Claude Cahun. Spostandosi poi tra gli spettatori, li invita a usare il suo corpo come una specie di grande quaderno dove immettere pensieri. Infine, ponendosi alle spalle del pubblico che si volta ammaliato, si mostra ricoperta delle parole condivise con tutti i presenti, esponendo la propria nuda persona a guisa di manifesto corporeo del pensiero.

Di natura diversa “Fine”, variegata coreografia di Olimpia Fortuni che utilizza, oltre alla danza, videoproiezioni, oggetti, e parole, e omaggia l’essere madre nella valenza polisemica del termine: biologica, spirituale, artistica e simbolica. In uno spazio totalmente bianco che nasconde un visore e una serie di mobili che rimandano all’infanzia, suffragata anche da gioiose grida infantili, la performer si muove rompendo gli spazi mentali che ogni volta si costruisce, attraverso una gestualità che si accompagna a una musicalità sempre pertinente. Sono spazi che rimandano ad altrettante fasi della vita, come il confuso periodo dell’adolescenza. Le immagini che fanno da contraltare alla gestualità di Fortuni sono i campi verdi di una natura madre benigna, la famiglia, il fuoco che divampa dentro e consuma ogni cosa. Alla fine, distrutti tutti gli elementi dello spazio scenico, ogni movimento si acquieta davanti alle rassicuranti immagini dell’Islanda, simbolo di una consapevolezza delle proprie emozioni.
Il rapporto madre-figlia che cuce tutte le parti della performance di Olimpia Fortuni rappresenta anche la riconoscenza dell’autrice alle sue madri artistiche, Milena Costanzo e Raffaella Giordano.

Fine di Olimpia Fortuni (ph: Sara Meliti)
Fine di Olimpia Fortuni (ph: Sara Meliti)

Dalla natura nordeuropea alla natura di “Sottobosco” di Chiara Bersani. Al centro, una flora sotterranea o rasoterra, fatta di arbusti, germogli, fili d’erba, tronchi caduti: che pure si tengono aggrappati alla vita, e cooperano al reciproco nutrimento.
Luci (Valeria Foti) basse laterali. Una pletora di marshmallow ricopre la scena. È un letto fluviale di ciottoli morbidi e zuccherosi, antidoto alle asperità e alle amarezze della vita.
Suoni distopici. Voli di ali spezzate. Rombi, fragori. La voce di una natura maestosa. La performer brancola in solitaria. Annaspa giù dalla sedia a rotelle, che rimane ai margini della scena.
Luce alta. Un sole che non è più tramonto e non è ancora alba. Un secondo corpo (Elena Sgarbossa) si avvicina con lentezza solenne, mentre echeggiano sibili e sbuffi. Due esseri sperduti, rigettati da un orizzonte lontanissimo, si incontrano e si separano. Nuovamente si cercano. Si riconoscono. Per agganciarsi e non lasciarsi più.
I suoni (di una caleidoscopica Lemmo) si fanno meno stridenti. Nasce l’alleanza dei corpi. Inizia la poetica degli sguardi. Bellissimo il testo della stessa Bersani emesso dalla sua voce fuoricampo, che rimanda al discrimine tra incomunicabilità e relazione. Finché non erompe un unisono di sorrisi, che commuove per la sua delicata sincerità.
L’incontro è concordia di corpi, affinità di respiri, relazione di occhi che ci parlano dai polpastrelli delle mani. La scena si popola di nuove presenze portatrici di nuove fragilità, che nella solidarietà trovano un’energia che diventa turbine e rivoluzione.
Lavoro garbato, che invita a trovare il contatto nella simbiosi con la natura, nella condivisione delle ferite, nell’armonia dei sentimenti. La grazia è nelle lacerazioni. La rinascita è nei tagli. La forza è dentro sguardi – anche i nostri – che si educano a riconoscere il dettaglio, e a scovare la poesia nascosta nelle piccole cose.

Ci sono spettacoli che si possono vedere a occhi chiusi, come “Open/Closed” di Pierre Piton. Fin dal primo respiro, l’aria è in tensione. I corpi ronzano. Quello del performer ha la guancia incollata al muro; il nostro si incolla al pavimento di fronte a lui. Al performer si incollano poi i suoni prodotti dal fruscio dei suoi movimenti, nella rielaborazione live di Simone Aubert.
Chi è chi in questo organismo elettrico? Chi sta ballando? In questo complesso allestimento di luci (Marek Lamprecht) e suoni, i movimenti liquidi del performer trasformano la sala in organismo vivente, attraversando le pareti, ribaltando il pubblico, tramutandolo in un’onda, evacuandolo. O forse è il contrario. Forse siamo noi ad attivare le scene che agitano lo spazio.
In questa strana esperienza l’immobilità è assente. Il finale di “Open/Closed” è enigma: ci ricorda che tutto è solo movimento, perpetuo e collettivo.

La riflessione sulla cultura e sulla manipolazione di massa – attraverso i meccanismi della comunicazione e dello spettacolo – è oggetto di “μονάς (Monàs)”, lavoro multidisciplinare di TeatrInGestazione. La compagnia napoletana guidata da Anna Gesualdi e Giovanni Trono parte dalle riflessioni del filosofo e regista francese Guy Debord: «La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, limitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale la sua vita è stata deportata, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente con la loro merce e con la politica della loro merce. Lo spettacolo, in tutta la sua estensione, è il suo “segno dello specchio”. Qui si mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo generalizzato».
Da spettatori entriamo in una babele distopica ripartita in due spazi da uno schermo: di qua dallo schermo siamo spettatori; al di là dello schermo siamo – forse – protagonisti. Il discrimine tra la prima realtà e la seconda nasce dalla possibilità di indossare delle cuffie, shakerati dalla musica, guidati da un performer. Il meccanismo tecnologico trasforma i movimenti degli “spett-attori” in coreografie – immagini cinematografiche, arti figurative – che oscillano dal naturalismo all’astrattismo. La nostra identità si frammenta e moltiplica. Un universo di colori si mescola. Diventiamo danza, dipinto, scultura. Siamo scisma e unità. Siamo fazione e finzione. Siamo inglobati nella società di massa che tutto appiattisce, e smarriamo la nostra identità.
“Monàs” stigmatizza una contemporaneità dimissionaria da sé stessa: una temperie pseudoculturale in cui gli artisti sembrano aver rinunciato alla possibilità di modificare gli assetti di potere. Lo spettacolo-installazione condanna l’egemonia dei governi e dei media sulla vita quotidiana. Denuncia il consumismo di massa. Critica il capitalismo, l’alienazione, la forza invasiva dello spettacolo al servizio delle classi dominanti, la civiltà delle immagini come fondamento delle relazioni interpersonali. Più attuale di così.

Nella sezione “Laterale” di Danae («singolari esperienze di vita in dialogo con l’arte»), ecco il tributo dell’artista multimediale meneghina Titta C. Raccagni alla propria città. “Cara Milano io provo ad amarti ma tu” è una riflessione attraverso immagini e parole. Video e installazioni, in uno spazio libero tra poltrone, cuscini, panche, tavolini, carta da lettere e fogli, libri e pennarelli. Scorrono immagini di una metropoli d’antan mitica, livida, maledetta. Quella che va dal concerto di Jimi Hendrix del 1968 al Piper, al concerto di Bob Marley del 1980 a San Siro (il primo in uno stadio), a quello dei Nirvana al Palatrussardi nel 1994, un mese prima della morte di Kurt Cobain.
Bellezza e tragedia. Ma qui sfilano anche le immagini di “Rocco e i suoi fratelli”, film cult di Visconti. E poi piazza Fontana, lo zoo comunale, il circo equestre. C’è la Milano nebbiosa degli anni Settanta e quella sdrucita degli anni Ottanta, tra siringhe e rampantismo. E poi l’evacuazione del centro sociale Leoncavallo, le prime case occupate dalle donne, il calciatore brasiliano Ronaldo, il “Fenomeno”, quello vero. C’è infine la Milano “nostra”, tra sogno e nostalgia. È sempre la magia del teatro. Anche noi scriviamo. Come Titta che legge nella penombra dietro le quinte il suo amore inappagato, affidiamo anche noi, a una biro e a un pezzo di carta, un pezzo della nostra anima sotto la Madonnina.

C’è l’amore per una città e l’amore per le persone. “Anna Ghiaccio” di Rita Frongia è uno spettacolo algido, o meglio, agghiacciante.
Una donna. Un figlio. Una montagna da scalare. In scena Isadora Angelini canta un amore ibernato. La scena è un paesaggio invernale evocato da mucchi di cellophane, che richiamano cime innevate. Il ghiaccio è anche nei costumi argentei della protagonista, nella sua chioma nivea raccolta in un cono di pluriball.
«Talvolta mi è difficile distinguere un pulviscolo nell’occhio da una fitta nel cuore» osserva la donna, in un mix di lucidità e follia. “Anna Ghiaccio” è un cocktail esplosivo di solitudine e dolore. Senza amore siamo patetici, a volte buffi, altre persino esilaranti.
“Anna e il freddo che ha”. C’è anche una bellissima canzone incisa da Enrico Ruggeri con Andrea Mirò del ‘99, anno di nascita di Danae Festival: «Anna che vola e non c’è più».
Ma cosa c’è dietro quella coltre di ghiaccio, dietro quegli occhi vitrei che regalano sorrisi e paradossi?
Anna canta l’amore attraverso brani pieni di ossimori e blackout: “Amandoti”, “Sarà perché ti amo”, “Ma che freddo fa”, “Amore che vieni amore che vai”, “La costruzione di un amore”. È un canto sfasato, distorto, sempre fuori tempo, inseguendo le parole, assemblando contraddizioni. Molta ironia in questo spettacolo ritmato e strampalato, che nasconde i frammenti di uno psicodramma.
Un cuore pietrificato. E forse il ghiaccio serve a lenire un trauma che brucia ancora e lascia lividi ed ematomi. Idea originalissima («amo gli spettacoli di Frongia perché non assomigliano a niente» ci dice uno spettatore) per un’attrice che padroneggia la scena interpretando un personaggio che è somma di tutte le antitesi.

Da una favola bizzarra arriva anche Paola Tintinelli. “Cosa son ora fuorilegge” è l’anelito all’amore di una donna baffuta della periferia milanese. Atmosfere alla Giovanni Testori. Ma qui c’è anche il progetto di un film. E c’è la fantasia di una montatrice che prova faticosamente a connettere le varie parti.
Anche qui, poesia e follia. C’è un alone fiabesco nella protagonista con il suo camice da lavoro e i suoi capelli da Mastro Geppetto, che aziona un marchingegno sonoro che sembra un Castello errante di Howl in miniatura. Ne fuoriesce una risma di suoni: clangori, trilli, cinguettii, turbini, scampanellii.
Ha l’anima del clown, Paola Tintinelli. Di questo lavoro visuale disincantato e immaginifico colpiscono le vocine e i borbottii, una mappatura infinita di suoni, una recitazione da cartone animato. Questa creatura felliniana scende dalla luna e ci porta il suo mondo magico. È una drammaturgia sgangherata come l’impianto scenico e la regia. Tuttavia ci innamoriamo del personaggio buffo, della sua storia da fumetto, del modo imbambolato in cui usa la voce.

Danae termina nella splendida cornice quattrocentesca di Villa Mirabello. Era il soggiorno estivo della famiglia Visconti. Qui il danzatore Antonio Tagliarini in “Pairadaëza”, nella sua declinazione della sezione “Laterale”, racconta il suo amore per la danza e per il giardinaggio. In modo conviviale, tra sorrisi e biscotti, egli snocciola una serie di aneddoti. E ci invita a un singolare esercizio spirituale: piantare un acero nel giardino della villa, per respingere la barbarie di chi invece gli alberi li taglia.

Chiudiamo con “Ónfalo”. Attila Faravelli ed Enrico Malatesta, artisti sonori sperimentali, incontrano l’entomologo Juan Lopez. Dopo una riflessione accuratissima sulla comunicazione vibrazionale degli animali, inizia un concerto di suoni carpiti nei parchi di Milano, che interagiscono con un concerto dal vivo fatto di pietre, metalli, rami, ciottoli, conchiglie.
Un tempo raccolto. Fruscii e sfrigolii dialogano con le sirene di un’ambulanza e le campane di una chiesa. Lasciandoci un senso di pace.

Con il ponte dei morti, nel giardino di Villa Mirabello, muore un’altra edizione di Danae. Ma noi, illusi e sognatori, crediamo nel “paradiso”. Che in persiano significa proprio giardino. E allora attendiamo una nuova edizione di Danae come nirvana di cespugli odorosi e boschetti ombrosi. Che sia ancora oasi di ristoro, da contrapporre al tenebroso rito della quotidianità.

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