Classe 1986; se l’albero genealogico araldico in rete non mente, discendente da una famiglia nobile di lungo corso, è un raro caso in cui il cinema e la televisione si intersecano con il teatro, dalle plurime anime e derivazioni. Procede, e cresce, affrontando anche la creazione di un Fan club in suo onore, questo attore, regista, cantante, autore di se stesso; con lo spirito libero di chi si dedica del tutto al gioco così serio di dar voce alle anime, anche controverse, che si nascondono in ognuno di noi.
Dopo aver lavorato con nomi quali Michele Placido ed Ettore Scola, è in tournée per l’Italia con “Pretty – Un motivo per essere carini” di Fabrizio Arcuri. Recentemente a Roma, al Teatro Manhattan, con Elisa Menchicchi e la loro versione di “Revolutionary Road”, decidiamo di conoscerlo, curiosi di sapere fin dove lo porterà questa sua “strada rivoluzionaria”.
Come ci sei finito dentro all’Accademia di Arte Drammatica, anche detta la Silvio D’Amico? Predestinazioni o ci ha messo lo zampino il caso?
Era un momento della mia vita in cui da 3/4 anni avevo cominciato a fare teatro con continuità… laboratori con la scuola e altri corsi fuori. Verso la fine del quinto anno di liceo ho cominciato a informarmi su varie realtà che dessero la possibilità di continuare il mio percorso e svilupparlo a livello professionale. L’Accademia era davvero il sogno. Feci il provino a 18 anni (quasi 10 anni fa!) e andò bene. Sono davvero grato a tutto quello che mi ha dato lo studio in quei tre anni.
Cos’è successo quando sei uscito? Il mondo dello spettacolo ti aspettava a braccia aperte o è stata una lotta, passo dopo passo?
Finito lo studio mi sono reso conto subito di quanto un’accademia sia importante, ma anche di quanto l’esperienza “di palco” sia fondamentale per formare a pieno un attore. Sono stato fortunato: mi sono diplomato andando in scena al Globe Theatre di Roma con “Il racconto d’inverno” per la regia di Francesco Manetti (insegnante fondamentale per il mio percorso!). Dopodiché ho sostenuto quasi sei mesi di provini per il ruolo – che fu di Dustin Hoffman – per la versione teatrale de “Il Laureato”, accanto a Giuliana De Sio. Passate le selezioni cominciò un periodo di formazione davvero intenso. Capii tante cose dei ritmi di palcoscenico, delle insicurezze e paure che vengono fuori nei momenti cruciali e devi imparare a gestirle. In quel periodo avere al mio fianco una collega come Giuliana fu importantissimo. Tutte queste cose non possono essere sperimentate in una scuola. La messa in scena con un pubblico, che viene a vedere uno spettacolo e non ti conosce, è un’altra cosa.
Il tuo è un percorso sfaccettato: teatro, cinema, televisione, radio, video clip… Hai registrato anche un cd musicale e lavorato con Ettore Scola così come con Fabrizio Arcuri. Sei soddisfatto, finora?
Sì, le esperienze sono state tante e diverse. Il disco fu una coincidenza! Stavamo girando una serie tv (“Piper”), in cui ero un musicista, e alla fine decisero di incidere i brani. Il cd ebbe un discreto riscontro. Fu acquistato da: mamma, la mia ex fidanzata dell’epoca e due amici che si sono presi gioco di me per anni… Ad ogni modo fu davvero divertente.
Ogni lavoro, anche il più piccolo, porta in sé la possibilità di una grande esperienza. Bisogna decidere di farla.
Nel 2010 mi sono avvicinato al buddismo di Nichiren Daishonin, che incoraggia a partire da noi per trasformare l’ambiente circostante. Una pratica che ti spinge a sviluppare il grande potenziale che tutti possediamo nella nostra vita. Ebbene, da allora, nonostante la crisi e il periodo davvero complesso, ho sempre scelto i progetti in cui lavorare. O meglio: sono stati tutti incontri ‘a ritmo’ con la mia vita. E posso dire di vivere grazie al lavoro che faccio.
Com’è passare da cinema e televisione al teatro contemporaneo? È una condizione schizofrenica facile da gestire?
Cimentarsi in progetti di vario genere è sempre stimolante. Alcune volte mi si chiede: “ma non è stancante?”. A questo rispondo spesso: “sempre meglio che lavorà”… Alla fine, si tratta sempre di ritrovare la dimensione del gioco e del divertimento. Quando si lavora in progetti importanti e frenetici può capitare di dimenticare questo punto.
In televisione e cinema i tempi sono molto veloci, e in quei casi capisci presto che ritornare alla dimensione del gioco è spesso la migliore chiave. In quella tempesta, che è fatta di ritardi, attese, cambi all’ultimo momento, scene aggiunte… bisogna trovare la tranquillità per divertirsi. Questo anche in teatro, sperimentale e non. Le cose più brillanti vengono fuori da una semplice domanda a se stessi: mi sto divertendo o no?
Passiamo al lavoro con Elisa Menchicchi e la vostra messa in scena di “Revolutionary Road”. Come mai questa scelta? È stato più il romanzo di Richard Yates o il film di Sam Mendes a catturarvi?
Tutte queste esperienze portano a formare una propria visione e opinione, che tu ne sia cosciente o meno. Ad un certo punto è arrivato il momento di confrontarsi con il proprio modo di intendere il teatro. Così è avvenuto per “Revolutionary Road, uno studio”. Un’avventura meravigliosa, iniziata con due enormi compagni di viaggio: Elisa Menchicchi e Samuele Chivoloni (che ha anche curato la drammaturgia).
Mi ero imbattuto in questo romanzo poco prima che uscisse al cinema. Con Yeats è stato amore a prima vista: ha la capacità di pescare nel profondo di ogni essere umano. Ognuno di noi può trovare un pezzo di sé all’interno dell’opera. Quanto è difficile re-volvere, voltare di nuovo, utilizzare la terra morta per creare proprio da quest’ultima qualcosa di vivo e nuovo? Tutti e tre abbiamo amato profondente questo lavoro, e al momento stiamo presentando il progetto a vari festival e realtà teatrali. In primavera torneremo!
E ora ti passo la patata bollente nonché tormentone dell’ultimo decennio. Come vedi il nostro Paese? Idee a lingua sciolta per contribuire attivamente a un suo cambiamento…
La situazione culturale può diventare una comoda coperta sotto la quale ripararsi. È vero, sappiamo quello che sta avvenendo in Italia e quanto sia complesso portare avanti una propria visione artistica in una situazione del genere. Il rischio più grande è non vedere più vie d’uscita, credere che sia tutto inutile, che ormai le cose andranno così per un bel pezzo.
Per questo torno “a bomba” al discorso fatto in precedenza: “E’ necessaria una rivoluzione che parta dal singolo individuo”. Per trasformare l’ambiente intorno a noi si deve partire inevitabilmente da noi stessi. Studiare, ideare progetti importanti per il nostro percorso, creare legami umani autentici. “Revolutionary Road, uno studio” è stato così: nessuno di noi, anche nel momento di più grande sconforto, ha avuto dubbi sulla riuscita, proprio perché era sicuro del proprio valore, di quello delle persone accanto a sé e di ciò che andavamo a rappresentare. Eravamo io, Elisa e Samuele nei camerini, poco prima dello spettacolo, posizionati dietro le quinte e pronti a entrare, ci siamo fatti la “merda”, ci siamo guardati, sorrisi e ci siam detti: “Abbiamo vinto”. Ed era vero. Percepire questa possibilità, questa gioia, è di per sé vincere.
Penso che alla fine saremo noi stessi a tirarci fuori da questa situazione. Perché siamo noi che tutti i giorni lottiamo con un obiettivo, e perché meritiamo tutti di essere felici. Credo che solo percependo il nostro valore, come esseri umani prima di tutto, riusciremo a fare il primo passo, che è sempre quello più difficile.
Lavorare con Ettore Scola, in un film così impegnativo come “Che strano chiamarsi Federico” che vuole narrare Fellini, sarà stato un bel traguardo per te. Affrontare dei Maestri del genere…
Lavorare con Ettore Scola è stato un onore indescrivibile. Ognuno di noi era davvero a proprio agio. In quel mese ho potuto apprendere molto da lui. Non accade tutti i giorni di poter assistere a un vero e proprio atto d’amore. Perché alla fine di questo si tratta. Un grande atto d’amore nei confronti di un amico. Per me essere testimone, corpo e voce di quest’opera, ha voluto dire tanto. Ettore non si capacitava di come oggi si potesse lavorare in modo creativo: “Io per girare una scena ho bisogno di tempo, non posso girare sei scene al giorno!”. Allo stesso tempo aveva la calma di uno che sa farsi trasportare da un film, da un’avventura, ovunque essa lo porterà.
In debutto a gennaio a Napoli e ora in scena al Menotti di Milano (fino al 23 febbraio), è “Pretty – Un motivo per essere carini“, da un testo di Neil LaBute, per la regia di Fabrizio Arcuri: uno spettacolo che “ci porta ad interrogarci sulla fiducia e sull’amore, fondamento di qualunque relazione umana”. Ci confermi la sua intensità? Com’è stato lavorare a uno spettacolo in cui si mette in dubbio la verità e l’essenza della bellezza, tu che sei considerato bello tanto da avere un Fan club?
Si tratta di un testo davvero interessante. Ognuno dei personaggi non riesce a manifestarsi per ciò che è, addirittura nel confronto con se stesso. Forse perché nessuno sa davvero che cosa è. Possiamo dire che tutti i personaggi sono costantemente in balìa dell’ambiente che li circonda, delle opinioni degli altri, di quello che una persona potrebbe pensare di lui. Anche coloro che si dichiarano profondamente liberi, sono tutti schiavi di qualche cosa. Anche perché è molto più comodo.
Il concetto di bellezza, cosa è bello, se esiste o meno, sono pretesti che servono a mettere al centro e sottolineare quanto in realtà siamo complessi anche nelle nostre “superficialità”. C’è una riflessione di Carlo Mazzacurati che per me sintetizza perfettamente questi personaggi e il sentimento che si ha verso di loro alla fine dell’opera: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre”. Sono davvero curioso di vedere le reazioni del pubblico.
Lasciamoci con un verso dei tuoi spettacoli più recenti che ti risuona in testa, e che hai fatto più tuo…
C’è un momento di “Revolutionary Road” in cui Yates/April Wheeler dice: “Era calma e tranquilla, ora, sapendo quel che aveva sempre saputo: che se si vuole fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli”.