Da Krapp a Senza Parole: tutto il Beckett di Glauco Mauri e Roberto Sturno

Glauco Mauri e Roberto Sturno
Glauco Mauri e Roberto Sturno
Glauco Mauri e Roberto Sturno nella citazione di Finale di partita (photo: teatroeliseo.it)
Chissà se nel 1961, mentre si apprestava ad essere il primo attore in Italia a dare corpo e voce al nostro affezionato Krapp, Glauco Mauri immaginava il lungo e luminoso magistero teatrale che lo avrebbe atteso.
È però certo che oggi, dopo cinquant’anni, è difficile restare insensibili all’emozione di vederlo dialogare, nella sua più recente versione di “Krapp’s last post”, con la voce registrata, risalente proprio a quella prima rappresentazione, del sé stesso trentenne: il Mauri attore, ascoltando il timbro cristallino della sua voce giovanile, trova la piena conferma delle sue speranze di allora, con la consapevolezza di chi, a più di ottant’anni, è ancora nel vivo della carriera.

Ma in scena, con uno di quei giochi di specchi che rinnovano ogni sera la meraviglia del teatro, deve accadere esattamente il contrario: perché Mauri fa Krapp, e mentre sul piano del reale sta confermando sé stesso, sul piano teatrale sta dando vita alla sua nemesi, ad un aspirante artista che con, le sue stesse speranze e le sue stesse ambizioni, affronta invece il muro assorto e inviolabile del fallimento, della vecchiaia ingrata.

È proprio “L’ultimo nastro di Krapp” il momento più alto di “Da Krapp a Senza parole”, il florilegio beckettiano che lo storico connubio artistico Glauco Mauri-Roberto Sturno torna a proporre. Si tratta di una sequenza di quattro atti unici, di cui Krapp occupa per intero la seconda parte dello spettacolo: nella prima, dopo un breve prologo, assistiamo a “Respiro”, “Improvviso dell’Ohio” e “Atto senza parole”.

Mauri e Sturno cominciano il prologo sbucando fuori da due bidoni: una citazione di “Finale di partita” che introduce gli spettatori nell’universo indistinguibile del premio Nobel irlandese. Fin da subito è insomma chiaro il taglio divulgativo di questo lavoro.
Mentre sullo sfondo viene proiettato il torvo viso di Samuel Beckett, alcune sue frasi tratte dalle interviste e alcuni dei suoi più celebri aforismi diventano materiale dialogico per i due attori, che sdoppiano le parole del drammaturgo, tracciando un breve ritratto della sua poetica e convergono poi sulla sintesi più importante, ripetuta coralmente: «Non c’è nulla di più comico dell’infelicità».

“Respiro”, in poco più di mezzo minuto, è l’estrema e immediata rappresentazione di quel silenzio con cui Beckett ha fatto i conti per tutta una vita. Una farragine di oggetti e rifiuti occupa per intero il palco della scena bianca, illuminata da una luce che cresce, rimane in massima apertura per pochi secondi e poi si riabbassa: alla parabola della luce corrisponde quella di un respiro fuori campo, un vagito e un agonizzante affanno senza apparenti sussulti rispetto all’inevitabilità del ciclo in cui il respiro è immerso. L’idea che forse Beckett aveva della vita in società: un lampo rapido, un mucchio di cianfrusaglie su cui costruire sovrastrutture, il grido della biologia nelle sue insuperabili maglie materiali e temporali.

Fra un atto e l’altro il sipario si chiude e fa da fondo per la proiezione di video che introducono all’atto seguente, contestualizzando l’opera del drammaturgo e raccontando ad esempio la sua infanzia, immergendoci per qualche istante nella brughiera irlandese. Pur dovendo coprire in qualche modo i tempi necessari al cambio di scena, le scelte dei video paiono a tratti fin troppo didascaliche: d’altronde non è facile tutelare la volontà divulgativa senza spezzare troppo l’atmosfera teatrale.

“Improvviso dell’Ohio” è l’unico atto a permettere, oltre al prologo, la presenza in scena sia di Mauri sia di Sturno.
Due sagome con il volto coperto dall’ombra e dai capelli bianchi, figure dall’evanescenza inquietante, siedono a un tavolo. Uno dei due legge un racconto da un libro, l’altro ascolta e battendo la nocca della mano sul piano del tavolo fa da metronomo alla lettura: un metronomo crudele, perché più di una volta, oltre ad indicare le pause e ritmare il testo, la mano sembra quasi coartare la lettura, costringerne il lirismo a ripetizioni e riprese, secondo la consueta immobilità e ricorsività del tempo in Beckett.
Il testo racconta di un addio e di una vita ormai irrecuperabile se non in quell’ultima rievocazione: s’affacciano insomma gli stessi elementi che saranno al centro dell'”Ultimo nastro di Krapp”, compreso il tema del doppio, perché Lettore e Ascoltatore di “Improvviso dell’Ohio” sembrano a tratti condividere l’identità, essere ombre di una stessa persona persa nei gangli del proprio vissuto.

In “Atto senza parole” la sapienza recitativa di Roberto Sturno testimonia l’importanza della clownerie nei testi di Beckett (ricordiamo che anche Krapp, secondo le indicazioni registiche originali, dovrebbe essere vestito da clown: Mauri si limiterà alle calzature, evitando il cerone). Dopo la penombra rarefatta dell’atto precedente, ora le luci tornano a spalancare una scena diafana, che scopriremo essere un deserto. Sturno è solo, al centro, e secondo alcuni schemi comici tradizionali viene costretto ad inani peripezie per riuscire a bere un bicchiere d’acqua: gli oggetti gli piombano addosso dall’esterno, costringendolo ad elaborare piani non troppo intelligenti per raggiungere la brocca che gli pende sopra il capo, inafferrabile per colpa di qualche centimetro. Ma ogni tentativo è inutile, perché per quanto il clown si affatichi l’acqua si solleva sempre di quel tanto che basta a rovinare le sue scalate improvvisate.
Una piccola gemma, questo “Atto senza parole”, che rappresenta perfettamente la sintesi unica fra grottesco e tragico da cui tanta parte del lavoro di Beckett trae linfa.

Su Krapp, infine, c’è poco da dire: il testo è noto a tutti, e facilmente immaginabile è anche la maestria con cui Glauco Mauri interpreta il ruolo del protagonista in ascolto del suo passato. Rinserrato dietro la sua voluminosa scrivania, la figura di Krapp emerge in modo particolarmente potente grazie al bel disegno luci, che sfrutta il movimento della sedia a dondolo per illuminare a intermittenza l’espressione arcigna di Mauri. Come già era capitato negli atti precedenti, l’attore in scena cerca la luce proveniente dall’alto (in questo caso per riuscire a leggere le etichette dei nastri), ne ha bisogno, ma allo stesso tempo ne viene irrimediabilmente accecato: si tratta forse della metafora di un’impossibilità metafisica, che costringe i personaggi beckettiani all’orizzontalità del loro tempo chiuso.
La pienezza della presenza scenica di Mauri è stata resa dagli anni quasi spontanea: mentre sul magnetofono scorre il nastro che racconta di un giovanile “Addio all’amore” e di un “Memorabile equinozio”, e mentre l’attore utilizza come costante del personaggio quel costante mugolio, quel lamento che accompagna i passi di certi anziani che stanno terminando le energie, allo spettatore non rimane che assaporare l’ironia e la rassegnazione della duplicità temporale, senza uscite, che si realizza in scena.

La maestria di due attori di vecchia scuola, che non temono le soluzioni convenzionali perché sanno benissimo come ravvivare la semplicità dei gesti, è l’indiscutibile forza di questa antologia beckettiana. Certo, la drammaturgia di Beckett, soprattutto quando – come in “Improvviso dell’Ohio” – si sofferma su ampie porzioni monologiche, mostra ancora molte asperità per il largo pubblico, e a qualche sbadiglio dalla platea devono arrendersi perfino due come Mauri e Sturno. Ma chi riesce a seguire la disperazione eremitica dell’irlandese con l’attenzione e la fatica che merita, potrà cogliere nella durezza beckettiana anche un luccichio inaspettato: vale comunque la pena di riprovarci, con questa vita. Quanto meno, «fallirò meglio».
A Roma fino al 21 aprile.

Da Krapp a Senza Parole

di: Samuel Beckett
con: Glauco Mauri, Roberto Sturno
regia: Glauco Mauri
musiche: Germano Mazzocchetti
impianto scenico: Francesco De Summa
traduzioni: Carlo Fruttero e Franco Lucentini
luci: Gianni Grasso
durata: 1h 45′ con intervallo
applausi del pubblico: 2′

Visto a Roma, Teatro Piccolo Eliseo, il 4 aprile 2013


 
 

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