Da uno Scenario all’altro, ripartendo dalle radici

Treno fermo a...|I Fratelli Dalla Via|Medea - InternoEnki|Beatrice Baruffini
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I Fratelli Dalla Via
I Fratelli Dalla Via
Da studi scenici della durata di venti minuti a spettacoli compiuti. Dopo essere stati proposti (e premiati) in “stato larvale”, i lavori selezionati del Premio Scenario, giunto alla sua XIV edizione, hanno debuttato in forma completa la scorsa settimana al Teatro Franco Parenti di Milano.

Scenario ha difatti non solo il merito di ergersi a osservatorio della giovane scena italiana e di rappresentare un’opportunità per talenti emergenti (molti fra i nomi più noti della scena contemporanea sono passati di qua, da Emma Dante a Babilonia Teatri), ma anche e soprattutto quello di scommettere su un’idea, su un lavoro in fieri, intercettandone le potenzialità e lasciando che queste fioriscano. Se son rose. Perché, vincitori o no, la prova del nove rimane il debutto, che riserva sempre qualche sorpresa, bella o brutta che sia.

Succede in parte anche quest’anno dove, accanto al bell’exploit dei due lavori vincitori (Fratelli Dalla Via, vincitore Premio Scenario 2013 e Collettivo InternoEnki, vincitore Premio Scenario per Ustica 2013), si affiancano le prove un po’ meno convincenti degli altri due selezionati.
Ma prima di scendere nel dettaglio dei singoli spettacoli, val la pena tracciare un piccolo quadro di cosa è emerso in questa edizione del premio, per comprendere verso quale direzione sta andando la scena contemporanea, quali spinte la stanno muovendo, e da quale punto di vista le nuove generazioni osservano il presente.

E’ vero che il premio predilige, soprattutto nel filone dedicato ad Ustica, l’impegno civile e quindi non stupisce che nei progetti selezionati negli ultimi due anni, la crisi – che è economica, politica ma che si trasforma in disagio esistenziale, generazionale e sociale – campeggi. E che la precarietà, intesa sia nel senso personale che di territorio, emerga fortemente, e si manifesti sotto forma di conflitto generazionale, senso di impotenza, impossibilità (o incapacità) di riscatto.

Ma il tratto interessante è che la necessità di indagare, denunciare, e anche ricordare, parta dal locale. Ecco che emergono allora le piccole realtà regionali: da un Veneto strozzato dalla crisi si arriva ad una Lucania devastata dai disastri ambientali e dalle lobbies petrolifere, passando per un sud in generale degradato e dimenticato fino ad arrivare a una Parma esempio di resistenza antifascista.
Ne nascono delle vere e proprie cartoline “vive” dove la lingua diventa dialetto, visto come unica espressione, per dirla con le parole di Luigi Meneghello, “incavichiatta alla realtà” e quindi in grado di restituirne l’autenticità.

Le nuove generazioni, se prendiamo Scenario come cartina di tornasole della scena contemporanea italiana, più che di analizzare la realtà, sembrano aver voglia di fotografarla, di sbattercela in faccia così com’è. Purificandosi da tutti quegli artifizi intellettualistici e cattedratici che molto hanno caratterizzato la generazione passata, e confermando l’evidenza che spesso l’arte e la cultura dovrebbero essere in grado di porre domande piuttosto che dare delle risposte.

E ora passiamo agli spettacoli nei dettagli.

Mio figlio era come un padre per me di Fratelli Dalla Via – vincitore Premio Scenario 2013

All’interno di una scenografia costruita con cassette di plastica e tavole di legno, due fratelli architettano l’omicidio dei genitori. Lui è ossessionato dalla mancanza di futuro in un presente che lo costringe a lavorare “non per guadagnare ma per lavorare”, lei è in realtà più preoccupata di un metabolismo che funziona male e che la fa ingrassare. Ma entrambi condividono lo stesso desiderio: far fuori la causa dei propri mali.

Dopo essere giunti alla conclusione che il modo migliore per uccidere un genitore è ammazzargli i figli, e mentre stanno valutando chi dei due debba sacrificarsi, scoprono però che i “vecchi” ci hanno già pensato da soli. Il papà, un imprenditore veneto arricchitosi fabbricando pavimenti in legno, si è buttato sotto un treno “pressato da Equitalia e schiacciato da Trenitalia”, e la mamma, ex miss Illinois ora mostro siliconato, lo ha seguito.
Privati anche dell’ultima speranza progettuale, non possono far altro che immolarsi alla causa persa e sdraiarsi con le mani congiunte ai piedi delle bare dei defunti.  

Con un’ironia agghiacciante e grottesca, Marta e Diego Dalla Via – fratelli anche nella vita – costruiscono la parabola decadente della quarta generazione di un’impresa a conduzione familiare che si è arricchita, e imborghesita, negli anni, e che ora è allo sfascio.
Una storia attuale e tutta italiana. Dove le cosiddette colpe dei padri si mischiano alle falle di un sistema imprenditoriale che “imprigiona” i giovani all’eredità paterna (“Per costruire un futuro all’altezza di questo nome bisognerebbe vomitare il proprio passato”), e quando questa, da un giorno all’altro, svanisce, lascia non solo senza fonte di reddito ma anche incapaci di immaginarsi un futuro diverso rispetto a quello a cui sono stati destinati fin dalla nascita.

Accantonando la tanto raccontata “generazione mille euro”, piena di sogni che non riesce a realizzare, i Dalla Via ci parlano di un’altra giovane generazione vittima della crisi, quella degli “ex-privilegiati” che di sogni non ne hanno mai avuti e si trovano a passare improvvisamente dall’avere tutto al non avere nulla. Se non un senso di alienazione distruttiva: “Le fabbriche si delocalizzano, i costi si scaricano, ma la tristezza non è delocalizzabile né scaricabile”.
Intriso dei cliché tipici di una precisa classe sociale e di un linguaggio regionale, il testo è un vero e proprio piccolo gioiello di scrittura drammaturgica che, con semplicità ed originalità, dà vita a un quadretto familiare così spietato da diventare sublime. Un contenitore in cui gli attori si muovono decisamente a proprio agio, con un Lori (alias Diego) che, sorretto anche da costumi azzeccati (come la pelliccia che indossa nel finale), riesce a connotare il personaggio, un po’ dandy un po’ fighetto di provincia, di una strafottenza idiosincratica degna di questo nome.

MIO FIGLIO ERA COME UN PADRE PER ME

di e con Marta Dalla Via, Diego Dalla Via
aiuto regia Veronica Schiavone
partitura fisica Annalisa Ferlini
scene Diego Dalla Via
costumi Marta Dalla Via

Medea - InternoEnki
Medea – InternoEnki
M.e.d.e.a. Big Oil di Collettivo InternoEnki – vincitore Premio Scenario per Ustica 2013

Le premesse sono già tutte nel titolo. Medea è la figura mitologica, rivisitata in chiave moderna ed eterodossa, ma è anche l’acronimo di un Master organizzato e gestito dalla Scuola Enrico Mattei e fortemente voluto dall’Eni.
Siamo in Basilicata, precisamente nella Val d’Agri, monopolio della multinazionale del petrolio e terra letteralmente sventrata dalle trivellazioni. Ma siamo anche nel profondo Sud, tuttora assoggettato ad una mentalità chiusa ed arcaica, dove si vive ancora di tradizioni, dove si crede ancora alle promesse che vengono dall’alto, dove si preferisce ancora pensare che i disastri avvengano per volontà divina, perché la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità fa paura, o è semplicemente vista la strada meno comoda da percorrere. E dove il singolo raramente emerge, perché a prevalere è la comunità.

E’ questa comunità che il Collettivo InternoEnki mette in scena, reinterpretando anche in questo caso il ruolo del coro tragico della tradizione classica, che diventa un vero e proprio groviglio umano, da cui a tratti si stacca la figura di Medea, madre di due figli che finirà per uccidere costringendoli a rimanere fedeli alle regole di una terra malata, ad accettare un lavoro malsano. Confondendo – come riferisce la nota di regia – un’occasione di morte con un’opportunità di ricchezza.

Il suo Giasone è l’ingegnere (la compagnia petrolifera), ma anche il sindaco (il potere politico), di cui si fida ciecamente, nonostante i dati e i numeri sull’incidenza tumorale siano chiari, e allarmanti. “Ci hanno detto: non vi abbandonerò e non vi tradirò mai. Io ci credo”.

Frutto di una lunga inchiesta svolta sul campo, il lavoro – scritto e diretto da Therry Paternoster, che ricopre anche (splendidamente) il ruolo di questa Medea-madre-terra – non ha soltanto il pregio di denunciare una situazione drammatica al limite del comprensibile, ma anche quello di evocare fedelmente l’“anima del sud”. Fatta di un vociare inarrestabile, di riti consolidati come quello di fare la salsa di pomodoro a mo’ di catena di montaggio, di canti popolari suonati col tamburello.

Gli attori, c’è da dirlo, sono bravi, e incredibilmente affiatati. Seguono una partitura fisica ben precisa, si muovono coesi e sono in grado di restituire quella coralità di memoria verghiana. Ma i rimandi, letterali e teatrali sono tanti. Come non pensare a quella “terra dimenticata da Dio” evocata da Levi?

Il finale, va da sé, è tragico. Quella scarpa che per tutta la messa in scena gli attori non hanno al piede (soltanto nel corso del comizio elettorale del sindaco, in cui si mette a regalare sogni e scarpe, per un attimo il popolo riacquista anche la seconda calzatura) viene persa definitivamente. E finisce ai bordi del palco, ammassata alle altre scarpe e in mezzo a fiori tombali.

M.E.D.E.A. BIG OIL
scritto e diretto da Terry Paternoster
con gli attori del Collettivo InternoEnki 1° Coro Maria Vittoria Argenti, Teresa Campus, Ramona Fiorini, Chiara Lombardo, Terry Paternoster, Mauro F. Cardinali, Gianni D’Addario, Donato Paternoster, Alessandro Vichi
sostituti 2° Coro Elena Cucci, Valentina Izumi Cocco, Monica Mariotti, Anna Ferraioli Ravel, Michela Ronci, Salvatore Langella, Angelo Lorusso, Ezio Spezzacatena, Pierfrancesco Rampino, Matteo Vignati

Beatrice Baruffini
Beatrice Baruffini (photo: Claudia Pajewski)
W (Prova di resistenza) di Beatrice Baruffini – segnalazione speciale

Sono la semplicità e la delicatezza a colpire più di ogni altra cosa nel lavoro di Beatrice Baruffini “W (Prova di resistenza)”.
Recuperando la tradizione del teatro di narrazione e di oggetti, l’attrice-autrice parmigiana rievoca una vicenda lontana nel tempo e legata al territorio, ma che ha inciso profondamente sul corso della Storia, quella delle Barricate antifasciste di Parma.

E’ l’agosto del 1922 e gli abitanti dei quartieri popolari dell’Oltretorrente e del Naviglio si stanno preparando per resistere all’invasione e alla devastazione del “nemico”.  Donne, uomini, bambini, ragazzi partecipano uniti a questa lotta collettiva, innalzando barricate e scavando trincee, volendo difendere ad oltranza le sedi delle organizzazioni proletarie, di quelle centriste e le proprie case.
La resistenza antifascista della Parma proletaria – l’unica che in Italia ebbe esito positivo – durò fino al 5 agosto, quando le squadre fasciste, sconfitte, abbandonarono la città: per molti fu una prova generale della Resistenza del ‘45.

Per raccontare questo piccolo grande evento, la Baruffini parte da una similitudine tanto semplice quanto efficace: il simbolo per eccellenza della resistenza, e della costruzione, sono i mattoni. E decide quindi di utilizzarli come unico elemento della sua messa in scena, trasformandoli in case e persone, muovendoli e spostandoli quasi come fossero dei burattini o delle costruzioni lego.
Hanno laccetti rossi o sono dipinti di nero, a simbolo delle rispettive “fazioni”; cadono, si risollevano, si rompono, si posano uno sull’altro. Talvolta sono solo “i proletari” e “fascisti”, altre volte hanno dei nomi e si chiamano Guido Picelli, Giuseppe Mussini o semplicemente Gino (Gino Cazzola, il caduto più giovane).

Perché alle vicende storiche si intrecciano quelle private, brevi racconti di storie personali, elementi che aggiungono ancora più dolcezza alla narrazione. Che pare quasi sussurrata, raccontata con una grazia d’altri tempi che commuove ma che tuttavia non brilla per incisività e nemmeno per ritmo narrativo.
Se a queste criticità uniamo poi la scelta compiuta dalla Baruffini di recuperare una memoria così legata al territorio, il rischio del suo lavoro potrebbe forse anche risiedere nella difficoltà a trovare una giusta collocazione all’interno della circuitazione teatrale.

W (Prova di resistenza)

di e con: Beatrice Baruffini
luci e audio: Dario Alberici

Treno fermo a...
Treno fermo a… (photo: Valeria Di Mito)
Treno fermo a-Katzelmacher di nO(Dance first. Think later) – segnalazione speciale

Mentre il pubblico si sistema in sala, la compagnia è già sul palco. Sono in tanti, una decina, chiacchierano, scherzano, si agitano, s’azzuffano, poi chiedono a qualcuno fra gli spettatori di scattar loro una foto col telefonino, premunendosi: non è che me lo fotti?
Insomma, sono già nella parte, quella di un gruppo di tamarri di provenienza mista, ma rigorosamente meridionale.

Ciascuno ha un ruolo preciso: c’è il bullo, lo scemo, la brutta, la fidanzata, l’aspirante cantante neomelodico, il gay e via dicendo, e ci vengono presentati, con il loro soprannome, attraverso una schermata video, che ricorda le schede dei concorrenti dei talent show o certi cartoni giapponesi anni ’80.  

Ciò che li accomuna è l’essere nullafacenti e forse anche nulla volenti. Trascorrono le proprie giornate al bar del paese, giocando a calcio balilla o standosene semplicemente seduti a cianciare attorno un tavolo di plastica (con il classico ombrellone Sammontana). Tra noia, apatia e senso di spaesamento (“Dove siamo?” “Accà”).

Ogni tanto passa un treno, ma non si ferma mai. Qualcosa però d’un tratto succede: arriva lo straniero (come nella pièce, poi anche film, di Fassbinder a cui il lavoro è ispirato, e a cui già nel titolo si fa riferimento), un marocchino venuto a lavorare nel bar di “zia Lisa”, che naturalmente crea scompiglio.
C’è chi ci flirta, chi lo sfrutta, chi se ne innamora, ma a poco a poco le dinamiche del branco prevalgono: Katzelmacher (termine spregiativo con cui i bavaresi indicavano l’immigrato e con cui i tamarri nominano il marocchino) viene isolato, diventa un capro espiatorio, e in una progressiva tensione nevrotica, si arriva all’aggressione: “Aspettava u’sule e trova u’sangu”.

Diviso in capitoli, il lavoro di nO(Dance first. Think later), che già dal nome è tutto un programma, spicca sicuramente per vitalità. Gli attori sono strabordanti, puntano su una fisicità eccessiva, sulla caricaturizzazione dei personaggi e sull’interdisciplinarietà, che mette in rilievo anche la grande capacità di lavorare in gruppo. Sulle note di hit da discoteca o canzonette neomelodiche, inscenano brevi coreografie, cantano, si muovono precisi e in sintonia l’uno con l’altro.

Ma la loro destrezza non basta per riscattare un lavoro che, partito bene, sopratutto nel trasporre questa realtà ossimorica di “esuberanza immobile”, così tipica del sud, arriva a una stagnazione. E da divertente che era, anche per un’eccessiva lunghezza, perde di ritmo e diventa noioso, ripetitivo e, cosa ancor più grave, anche se forse in parte voluta, inconcludente.
Fatto sta che il climax a un tratto si incaglia, il contenuto evapora e finisce per rimanere soltanto il carnascialesco.

TRENO FERMO A-KATZELMACHER

ideazione: Dario Aita
coreografie: Elena Gigliotti
interpreti: Diletta Acquaviva, Emmanuele Aita, Giuseppe Amato
Lucio De Francesco, Damien Escudier, Marcella Favilla, Flavio Furno, Melania Genna, Elena Gigliotti, Giovanni Serratore
costumi: Giovanna Stinga
consulenza e realizzazione scene: Paola Castrignanò
consulenza tecnica audio/video: Ludovico Bessegato


 

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