Dal Fringe di Edimburgo esperimenti su linguaggio e confini

Fire Exit di Horizontal Collaboration (photo: Mihaela Bodlovic)|Small War (photo: Jeremy Abrahams)
Fire Exit di Horizontal Collaboration (photo: Mihaela Bodlovic)|Small War (photo: Jeremy Abrahams)
Fire Exit di Horizontal Collaboration (photo: Mihaela Bodlovic)
Fire Exit di Horizontal Collaboration (photo: Mihaela Bodlovic)

How can I fill and empty the space at the same time?

Al Fringe di Edimburgo 2014, che alla declinazione annuale (“get unbored”) del proprio inno di battaglia ha risposto con numeri ancora una volta in crescita rispetto all’edizione precedente (quest’anno erano 3.193 gli show presenti di cui 1.789 prime per 47 Paesi rappresentati), sono tornata dopo un anno.
Ad aspettarmi uno spazio vuoto e pieno al contempo – Don’t you wonder sometimes
‘Bout sound and vision?

Sul bordo di questo spazio ho ascoltato le domande e i misteri che ancora si muovono attorno ai luoghi della scena, spesso popolati solo da due sedie, un paio di corpi e uno script, a cui aggiungere poche, pochissime, altre presenze: talvolta una scala, un tavolino e due bicchieri contenenti liquidi (uno dei quali forse letale), talvolta un divano bianco in pelle macchiato di rossetto come nel “Charmolypi” di Studio Matejka, o un cavallo a dondolo mai usato di Enrico IV su cui Pieter De Buysser ha concluso il suo “Landscape with Skiproads”.

Altre volte, più frequentemente dell’anno passato, ho visto sbarcare dal bordo volti scomparsi avvistati per le strade di Dublino, o sedie vuote come in “Missing” di David Bolger/CoisCéim Dance, o ancora la medesima scultura di Paul McCarthy sovrastare interamente tutte le prospettive di una giornata firmata Inez van Dam e trasformarsi in un annosa ricerca di senso dell’arte pubblica nel “Looking for Paul” degli Wunderbaum; ma ho anche ascoltato decantare magistralmente nel corpo di Valentjn Dhanenens e nella sua “SmallWar” i 41 trauma beats di una lunga fossa che parte dalla prima guerra mondiale e arriva fino ai conflitti in Iraq.

Small War (photo: Jeremy Abrahams)
Small War (photo: Jeremy Abrahams)

Una sola volta, all’interno del bordo, ho visto il profilo di una delle tre figure dell’astratto di Riccardo Buscarini attraversare lentamente i contorni della propria ombra nel suo “Athletes”.
Una sola volta, per “White Rabbit, Red Rabbit” di Nassim Soleimanpour, ho varcato il limite tra platea e stage, così sottile e teso, e al contempo immediato, per diventare, io, coniglio bianco che vuole andare al circo e si ritrova a pagare con il proprio sangue, in una gabbia lontanissima, la colpa della più scontata conquista: l’unica e sempre identica carota.

Il termine ‘esperimento’, quest’anno uno dei più ricorrenti nei libretti come sulla scena, popolarissimo nei prologhi di new writing così come nella coreografia, sui palchi da sempre dedicati alla nuova drammaturgia come nelle piazze della comedy, sembra alla fine anche quello più adatto per cercare di raggruppare, seppur sommariamente, il super concentrato di esperienze del Fringe Festival, nonché l’assaggio di una visione. Un esperimento, dunque, innanzitutto con la città di Edimburgo e al contempo con la variabile audience.

Molti gli show site specific e programmaticamente partecipativi, alcuni tra i più quotati all’unanimità da critica e pubblico: dall’adattamento di “Alice” di Lewis Carroll dei Fourth Monkey Theatre Company, su e giù per i quattro piani dell’edificio vittoriano del theSpace di North Bridge, all’apocalisse zombie dei neozelandesi “The Generation of Z” in George Square, fino al segreto timeline di un tramonto o di un’alba della memoria a Portobello Beach con “Out of Water” di Helen Paris e Caroline Wright, e al “Return to the Voice” del gruppo polacco Song of the Goat Theatre – vincitori del Fringe First nel 2004 e 2012, a cui Eleven, Summerhall e The School of Scottish Studies Archivies hanno commissionato un lavoro sulla tradizione gaelica ospitato nella cattedrale di St. Giles.

Ma questo Fringe è sembrato un esperimento anche sul linguaggio e sui confini del luogo scenico.
A partire dai due thriller scritti e diretti dal ‘site-specific genius’ David Leddy e presentati al Traverse Theatre con la compagnia Fire Exit: “City of Blind”, un drama di tre ore fruibile interamente su piattaforma smartphone o tablet, e la sua riduzione “Horizontal Collaboration”, performato giornalmente da quattro differenti blind actors, ciascuno seduto di fronte al proprio pc e alle trascrizioni di un’investigazione delle Nazioni Unite sul caso Judith K.

Alcune prove, prima di sbarcare all’interno del ‘biggest fringe ever’, hanno attraversato continenti di scrittura per concretizzarsi in un teatro che si sposta verso il mondo dei videogiochi e del cinema. Oppure di un teatro che legge le nostre neonate abitudini relazionali sotto la lente della letteratura distopica del Novecento.

Se da un lato abbiamo, ad esempio, “The Generation of Z”, sotto il nome attribuito ai cosiddetti nativi digitali, passa anche la produzione dalla New Zealand Season/Royale Productions, scritta da Simon London, David Van Horn e Benjamin Farry (regia di Michael Hurst), nata appunto sul web e trasformatasi in uno dei più imponenti show del 2014, in cui il set è “il personaggio più importante della storia”.

Dall’altro troviamo i thriller politici di Leddy ma anche la ruvida realtà di “The Hive” della The Human Zoo Theatre Company: una grande comunità del network che esclude ogni contatto umano per preservarsi dal conflitto, e regolata da tre dogmi: safety in segregation, love in logic, peace in solidarity.

Da presupposti diametralmente opposti sono partiti invece Carlo Massari e Chiara Taviani per il loro ironico “Maria Addolorata”, primo capitolo di una “Trilogia del dolore”.

Ma arriviamo all’esperimento più clamoroso di quest’anno, ovvero ‘the invention of the gun’, per usare le parole di Nassim Soleimanpour.
In “White Rabbit, Red Rabbit” il drammaturgo iraniano si fa leggere dall’attore/attrice di turno, e così parla alla sala del teatro X in cui nel giorno Y sarà rappresentato: “Voi siete il futuro, ed è la mia ignoranza di voi che mi fa scrivere”. Un assunto semplice e conciso che ribalta le posizioni sulla scacchiera, e che se da una parte aggiunge nuovi particolari al ritratto dell’attore, da giovane o meno – a specchio di questo, avremo poi modo di parlare del Minetti di Cairns inserito nel programma del Edinburgh International Festival – che anche nel nuovo “Blind Hamlet” verranno ‘sostituiti’ da una schiera di volontari estemporanei, dall’altra ci rimette faccia a faccia con le sue infedeltà, con la libertà delle sue bugie, con la fedeltà delle storie che il suo corpo rappresenta.

“We’re still ourselves when we lie” sostiene Owen Whitelaw durante “Unfaithful”, di Owen McCafferty. Oppure le bugie servono unicamente a complicare quel poco che basta una storia già abbastanza glamour, come nel caso di “Show 6” scritto da Mark Ravenhill per la Lyric Hammersmith’s Secret Theatre Company?

Per contro il Belarus Free Theatre è riuscito a offrirci, nel recinto di “Merry Christmas, Ms Meadows”, tanti scorci sull’identità di genere e sulla scelta sessuale, mischiando Ovidio con la storia vera di un insegnante del Lancashire; così, ancora, il Théâtre d’Un Jour è riuscito a rimettere in marcia la foresta di sculture di Jephan de Villiers all’interno del loro “L’Enfant qui…?”.

Queste alcune delle domande che riempiono e svuotano lo spazio del futuro, un futuro che, almeno secondo Soleimanpour, già abitiamo, ma che allo stesso tempo ci rigetta due passi indietro. Non accettare caramelle dagli sconosciuti, diceva qualcuno.
E qualcun altro, “It takes much more than wild courage/ Or you’ll hit the tattered clouds/ You must have just the right bullets/ And the first one’s always free”.

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