Danza, coreografia, musica, arti visuali, una rassegna che guarda al femminile. Con quel po’ d’ambiguità e mutevolezza insita nella mezza stagione. L’autunno trasfigura e ricrea la natura, aggiungendovi un tocco dissacrante.
È giunto alla XX stagione Danae, il festival diretto da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, che da domani fino al 4 novembre animerà la scena milanese.
Alessandra De Santis, affrontate quest’edizione con “l’orgoglio dei vent’anni” e “l’entusiasmo di un bambino”, direbbe Massimo Ranieri.
Da piccola mi piaceva questo ragazzo con la faccia da scugnizzo che cercava di affrancarsi dalle sue umili origini. Ranieri è napoletano come me. È aria di casa, anche se con il tempo ha cambiato pelle.
Anche Danae è aria di casa. E forse ha cambiato pelle. Ma ha mantenuto il proprio candore.
Non pensavo che saremmo arrivati alla ventesima edizione. Quando inizia un’avventura, ti ci tuffi inconsciamente. Non ti chiedi dove arriverai o quando ti fermerai. Anche dieci anni fa abbiamo provato la stessa sensazione di disorientamento. Al debutto ci sembrava tutto più semplice, un po’ per incoscienza, un po’ per le dimensioni minori. Adesso avvertiamo la responsabilità delle persone che ci stanno intorno, quelle che lavorano con noi, che condividono progettazione e lavoro.
“Vent’anni tra milioni di persone, che intorno a te inventano l’inferno. Ti scopri a cantare una canzone, cercare nel tuo caos un punto fermo”. Anche Claudio Lolli ha dedicato un brano ai vent’anni. E anche a voi sarà capitato di sentirvi nella tempesta, di cercare una bussola.
Grazie della citazione. Amo Lolli, che ci ha lasciato da poco. Lolli rappresenta gli anni dell’adolescenza, dell’impegno politico, delle amicizie per sempre, della scoperta della poesia. Quanto a Danae, le difficoltà nel tempo non sono sparite. Ci sono stati momenti di sconforto e talvolta tutto quello che abbiamo costruito negli anni ci è apparso anche una sorta di gabbia, perché il festival cresceva e con esso la struttura e le responsabilità cui dovevamo far fronte in una continua difficoltà. Ma siamo stati tenaci e forse anche folli. Nel corso degli anni abbiamo avuto risposte importanti: dal pubblico, sempre fedele; dagli artisti, con cui si creano legami che restano nel tempo. Un segnale forte è arrivato dalle istituzioni, e in particolare dal ministero, che negli ultimi anni ci ha premiato incrementando il contributo.
Per il vostro approccio all’arte vi sentite dei pionieri?
In qualche modo sì, almeno per quanto concerne la visione e la fruizione della scena. Noi da subito abbiamo avvertito l’esigenza di uscire dai confini stretti della sala tradizionale. Nel 2000, alla seconda edizione, ripulimmo la cantina del teatro Out Off, allora in via Duprè, nei pressi del ponte della Ghisolfa, per trovare spazi alternativi per nuove performance. Ricordo le scorribande in corso Garibaldi, dove animavamo le vetrine dei negozi attirando fiumi di persone. Una volta intervennero i vigili perché le automobili non riuscivano a passare. Come nostra natura, cerchiamo sempre la condivisione. Da soli non si va da nessuna parte. Così, con il tempo, abbiamo attivato numerose collaborazioni con realtà nuove o esistenti già da qualche tempo, che sentiamo affini, come Zona K, Olinda all’Ex Paolo Pini, Did Studio presso la Fabbrica del Vapore. Per questa edizione abbiamo intrapreso una collaborazione anche con il FIT Festival di Lugano, assieme a Zona K, per il progetto “L’uomo che cammina”. Anni fa abbiamo portato un progetto anche al deposito delle ferrovie Nord: fu così complicato dal punto di vista organizzativo e burocratico che ci dicemmo che dopo quello avremmo potuto anche organizzare progetti sulla luna!
Magari a bordo dell’Ippogrifo, come Astolfo. Oppure sognando, proprio come Danae. Perché è stato scelto questo nome?
Danae Festival è nato dall’esigenza di rendersi visibili, condivisa con molti altri artisti. Al tempo stavo lavorando a uno spettacolo ispirato alla scultrice francese Camille Claudel, e a seguito di alcuni incontri con altre artiste, che pure lavoravano su personaggi e artiste donne, ci venne in mente di provare a creare un contenitore in cui portare in scena una serie di lavori. Danae è un mito che rappresenta la forza della creatività, la capacità di generare nonostante le difficoltà. Il padre Acrisio la recluse in una torre perché sapeva che da lei sarebbe nato l’uomo che lo avrebbe ucciso. E invece da una piccola finestrella si materializzò Zeus, in forma di pioggia dorata. Danae, accoccolata, la ricevette in grembo e fu madre di Perseo.
Danae sfugge alle categorie di festival che rimandano a luoghi ameni, spazi circoscritti e momenti “balneari”. Voi agite su un territorio urbano esteso. Niente sole, mare, montagne. Incrociate l’autunno, Halloween, le zucche, i cimiteri, i mostri.
In realtà questa collocazione temporale di Danae è recente. Risale a cinque anni fa. Nel 2013 Danae, che era sempre stato un festival primaverile, ebbe la sua prima appendice novembrina. Il punto è che le nostre edizioni coincidevano con altri eventi milanesi importanti, uno fra tutti il “Salone del mobile” e il “Fuori salone”. La città era affollata di eventi e anche i prezzi degli alberghi salivano alle stelle. Abbiamo fatto di necessità virtù. Abbiamo scelto l’autunno. Visto che mi chiedi di Halloween, ti dirò che sono piuttosto critica nei confronti di queste feste d’importazione. E piuttosto che sentirci un po’ mostri, direi che ci sentiamo felicemente un po’ alieni come tutti gli artisti. Questa fase dell’anno è interessante, amiamo le ombre, le luci introspettive, le foglie cadenti. Per l’artista il confronto con la morte è importante. Tenere insieme le luci e le ombre.
Com’è l’interazione con Milano?
Lavorare qui è un privilegio. Milano è un’isola felice, anche in questo particolare passaggio storico-politico. Offre una miriade di offerte culturali. Il pubblico che la frequenta è formato e informato. Ma anche questo pubblico raffinato non va dato per acquisito una volta per sempre. Dobbiamo sempre mantenerne viva la curiosità. Il suo apporto è fondamentale per la nostra crescita attraverso il dialogo e la partecipazione. I nuovi media semplificano il confronto e alimentano il contatto.
Un bilancio di questi due decenni?
Siamo stati tra i primi a scommettere sul talento di artisti internazionali come la francese Gisèle Vienne, recentemente ospitata alla Biennale di Venezia, o il sudafricano Steven Cohen, artista totale che unisce istallazioni, scultura, performance, video e danza, e sarà di nuovo a Danae, all’Out Off, il 27 ottobre, con una prima dal titolo “Put your heart under your feet… and walk!”. Abbiamo creduto in Alessandro Serra di Teatropersona, premio Ubu 2017 con il suo “Macbettu”, che è stato per la prima volta a Milano proprio a Danae alcuni anni fa. Altri nomi che tornano quest’anno e che abbiamo seguito nel tempo sono Deflorian e Tagliarini, la compagnia Habillé d’Eau, Michele Di Stefano. E poi ci sono i giovani talenti tra cui Francesco Marilungo, Annamaria Ajmone che sosteniamo da tempo. La nostra cifra resta multidisciplinare. Dal 2008 abbiamo uno spazio tutto nostro, LachesiLab, zona Loreto. È un piccolo avamposto per la condivisione e il confronto tra artisti e pubblico. Per noi la ricerca è prioritaria.
I vent’anni di Danae si spiegano anche con l’affiatamento fra te e Attilio Nicoli Cristiani. Come lavorate?
Il nostro è più che un rapporto d’amicizia o di collaborazione. La nostra sinergia è totale. Nasce su un retroterra formativo comune che risale agli anni della Comuna Baires. Una volta andavamo tantissimo in giro per luoghi e festival a visionare gli spettacoli, in Italia e all’estero. Col tempo si sono create possibilità di venire a conoscenza di quanto si muove nella scena, partecipando a nuove piattaforme ad esempio, o visionando video che ci vengono inviati e anche fidandoci del passaparola, ma in generale preferiamo sempre una visione dal vivo. Quando definiamo il cartellone cerchiamo di creare un equilibrio tra le varie proposte, rispondendo alla nostra vocazione multidisciplinare che unisce teatro, performance, suono, laboratori. A volte giochiamo d’azzardo, ma in genere indoviniamo le nostre proposte. Non intendiamo consolare lo spettatore. Preferiamo interrogarlo. Gli chiediamo sforzi.
Come siete cambiati voi e come è cambiato il teatro in questo periodo?
Non credo alla categorizzazione del tempo. Questi vent’anni non ci hanno modificato. Forse ci hanno reso più consapevoli. Quanto ai cambiamenti della scena, la mia sensazione è che stiano scomparendo la necessità e il desiderio di riferirsi ai maestri. Questo è forse un male. Senza riferimenti a ciò che è stato viene meno un’unità di misura e di confronto, anche per arrivare al superamento dei modelli. Adesso ci sono molte opportunità per chi si affaccia alla scena, ci sono molti contesti virtuosi. A volte però si richiede una superproduzione ai giovani, e questo va a scapito dello studio e della qualità. Un’opera ha bisogno di sedimentarsi prima di cristallizzarsi. Una fase di decantazione è necessaria, soprattutto per far sorgere poi un’eventuale nuova necessità di creare. A teatro occorrono tempo, pazienza, zelo. Per converso, devo dire che ammiro tanti giovani perché si buttano. Hanno coraggio. Ma forse è la natura della giovinezza.
Cosa vi augurate per i prossimi vent’anni?
Intanto di esserci. Poi di continuare ad aprire porte per assorbire nuove correnti. Siamo attratti dal presente, dalla possibilità di leggere, interpretare e sostenere quello che accade e si avvicina qui e ora.
Parliamo dell’edizione che inizia domani. Chi ci sarà?
Esordiremo con Effetto Larsen allo spazio AssabOne. Proseguiremo con il progetto itinerante “L’uomo che cammina” di Dom-, una passeggiata performativa di alcune ore per le vie della città. Dom- focalizza l’attenzione sulla relazione tra corpo e paesaggio. Torna poi la danzatrice Annamaria Ajmone. E ospitiamo i maestri Raffaella Giordano, che torna alla scena dopo sei anni, e Danio Manfredini, di cui proponiamo “Al presente”, suo spettacolo di punta, che compie vent’anni, proprio come Danae.