A Danae anche le “occasioni perdute” di Elisabetta Consonni. E Ivan Carozzi omaggia Franco Battiato
Eccentrica e grottesca. L’ultima settimana di Danae è un repertorio di visioni e sonorità. È un arabesco che oscilla tra dolore e ilarità, sensualità e innocenza.
Il giro di boa del festival milanese diretto da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani è ancora nel segno della Svizzera e del Teatro Out Off.
“Notebook” di Alexandra Bachzetsis è una sorta di album biografico. L’artista di stanza a Zurigo ripercorre la propria biografia di coreografa e danzatrice. Va in scena con Antoine Weil come sparring partner, con Alban Schelbert al disegno sonoro.
Bachzetsis parte dal corpo e dalla cultura pop per narrare la propria storia di attraversamenti mediali, di linguaggi limitrofi alla moda e alle arti figurative. Ripresi dalla telecamera accesa in presa diretta, vediamo intrecciarsi due prototipi del maschile e del femminile che si ribaltano continuamente, deformandosi e ricomponendosi in varie versioni dell’androgino. Essi interagiscono con una scenografia underground di gigantesche camere d’aria.
L’abbigliamento abbina, sovrapponendoli, body femminili ultrasexy e blue-jeans. È un look smargiasso e trasgressivo, con squarci che preludono ai richiami sessuali subliminali della pubblicità.
L’eros è nei graffi sul corpo, nei gesti, nel voyeurismo in diretta live, che proietta su schermi bianchi intersezioni oblique di corpi languidi, magnetici, sfidanti.
La musica alla chitarra cede a rumori spersonalizzanti, a soffi di vento tra ghingheri sonori. Sbuffi, respiri, richiami. Pose da guappo. Corpi da leggere e reggere, flettere e rimodellare.
Anche i capelli danzano e creano coreografie. Fino alla citazione finale di Magritte, con due amanti velati (però in jeans) che sfumano in due fantocci alla De Chirico, simulacri metropolitani e postmoderni.
La sezione svizzera di radical dance si chiude con “Doom” di Teresa Vittucci, in dialogo con il musicista e performer Colin Self. In questa balzana versione dell’Eden e della creazione, Vittucci si presenta nuda di spalle, il corpo come un macigno, i glutei come blocchi di pietra. La performer è materia inerte e refrattaria, preludio tuttavia a un vitalismo capace di eruttare pulsioni esistenziali.
Colin Self è un elfo dalle orecchie a punta, un Sileno ibrido tra umano, animale e vegetale. Si deforma sotto una luce gialla innaturale disegnata da Thomas Giger, che presto darà vita a un paradiso color pastello.
Se “Doom” significa “destino”, qui l’Eden è sorte di coppia che gioca con le forme della propria corporeità tramutata in materiale drammaturgico. La giunonica figura femminile avvia la metamorfosi dello spazio, riscattando un degradante immaginario schiacciato sugli stereotipi di Eva come fonte del peccato originale, e di Pandora come principio di tutti i mali.
Ci si può trastullare con la forza dirompente dell’universo. Qui la nudità non è indizio di colpa, ma segno della magnificenza di Dio. Dio non è spauracchio, ma complice sornione di un dialogo di coppia basato sulla voglia di esplorare ed esplorarsi. La curiosità non è empietà, semmai energia generatrice dell’atto creativo.
Una danza senza creanza. I testi sacri cadono dall’alto, con il rischio di rimetterci le penne. La parola – abbinata a una musica e a un canto metafisici – si fa carne apoditticamente, senza bisogno di aiuti taumaturgici.
Nell’anno di Italo Calvino, rapidità e leggerezza, molteplicità e coerenza, pervadono con naturalezza il festival delle Moire. Basti pensare a “Missing outs”, collezione di occasioni mancate curata da Elisabetta Consonni. La coreografa, esperta in comunicazione, gioca con movimenti parlati, doppiati, danzati a Spazio Fattoria (Fabbrica del Vapore).
Daniele Pennati si muove in qualità di performer che usa la voce, con la spregiudicatezza di chi non si prende per nulla sul serio. E allora interagisce con le immagini proiettate su uno schermo di un monaco tibetano; oppure con Roberto Baggio alle prese con il fatidico penalty fallito in Italia-Brasile del ‘94. O ancora, con due personaggi che si incrociano, ripetendo la stessa scena un milione di volte: uno dei due fa cadere qualcosa, l’altro la raccoglie e gliela rende. E ancora, scene di film che hanno fatto la storia del cinema, tagliate, montate, assemblate in maniera sagace.
In questo coacervo di visioni realizzato in collaborazione con Francesco Dalmasso, Pennati interviene agendo con la propria ombra e con la propria voce, dando origine a sovrapposizioni e doppiaggi bizzarri, distorti, con esito esilarante.
Danza di chiaroscuri. Drammatizzazione di gesti. Le bocche in video si aprono per parlare in lingua originale, e Pennati le riempie di suoni bislacchi, di frasi in italiano e guaiti che danno il senso della comicità.
Missing out (vale a dire, la sensazione di aver perso delle occasioni) e ucronie (la storia rifatta con i se e i ma). Elisabetta Consonni ci racconta quello che sarebbe potuto accadere se alcuni eventi si fossero dipanati in maniera diversa da quella che conosciamo: se fosse cioè capitato quell’evento fortuito che ne avrebbe modificato la direzione. Come la pallina da tennis del film “Match point” di Woody Allen, che s’impenna sul nastro e non si sa in quale metà campo cadrà.
La vita è un gioco di dadi. Abbiamo tutti un rimpianto, e forse un desiderio. “Missing out” è un lavoro sornione: riuscito perché senza pretese, geniale perché senza velleità. Con tanto di backstage finale che ne ricorda l’origine (in epoca Covid) e l’evoluzione.
Generosissimo alla voce e alla performance, Daniele Pennati regala un’ora di pura ilarità.
E che dire della performance acustica di Camilla Barbarito alla voce, accompagnata da Paolino Dalla Porta al contrabbasso?
Alla sala Capriate di Mosso (angolo via Padova) lo spettacolo “Le tue parole all’improvviso” è la celebrazione del tutto e del niente. Prima di accedere in sala, gli spettatori sono invitati a riempire un foglio bianco. A scrivere una lettera, magari rivolta a sé stessi. A dire qualcosa di importante, di futile, di folle. A far sentire, insomma, la propria voce.
Barbarito, bizzosa Morticia Addams del teatro italiano, entra in scena con la sua sagoma sbilenca, sottile e gioiosamente lugubre. Accompagnata da un trillo di chiavistelli, percorre la sala circospetta, in impeccabile stile gotico, con al volto una maschera di Sartori. Quindi raccoglie i fogli degli spettatori, che diventeranno lo spunto per un concerto avanguardistico.
È questione di sguardi, tra i due protagonisti. Mentre la performer legge e interpreta a suo modo questa drammaturgia estemporanea, spezzettata, composita, Dalla Porta pare saltellare sulle corde del contrabbasso. Attraverso il teatro, mediante le suggestioni degli spettatori, carpiamo questo periodo di guerra e tensioni internazionali, di crisi di certezze e d’identità.
Il lavoro dimostra che cosa significhi realmente interagire con il pubblico, entrare nelle parole pensate per carpirne il segreto.
Camilla Barbarito sonda il mistero attingendo ai suoni di una natura cupa, notturna, rischiarata da evanescenti bagliori lunari. Indagatrice visionaria, detective dell’arcano, la cantante e performer svolazza con gli acuti. Eleva note subliminali. Coagula sonorità stridenti. Pronuncia vibrazioni acuminate e tramortite. I suoi riverberi incendiari a volte lasciano spazio a versi di gabbiani, corvi, cornacchie, allodole. Oppure sono rantoli e stridori.
Quegli occhi stregati, guardinghi, biechi, trapanano le facoltà percettive degli spettatori. E spiazzano. Perché questa drammaturgia improvvisata, accozzaglia imponderabile di materiale eterogeneo, sembra avere più coerenza e organicità di tanti sgorbi teatrali 2.0 che vengono celebrati – e spesso premiati – come fossero capolavori.
Benvenuti nel tempio del cabaret. In prima nazionale nella Sala Blu di Mosso, Ernesto Tomasini, in abiti sontuosi, sexy, pittoreschi, ci introduce nel mondo dei café chantant parigini, dei kabarett berlinesi o dei vaudeville americani.
In “Degenerata”, accompagnato al pianoforte da una Ornella Cerniglia splendidamente dark, Tomasini racconta gli anni della decadenza della prima metà del Novecento. All’epoca il potere si dipingeva di tinte fosche e sopprimeva le libertà veicolate dall’arte attraverso creature eccentriche che cantavano l’amore universale, senza coordinate o stereotipi di genere.
Donne mascoline. Uomini effeminati. Canzoni scollacciate, in un mondo dominato dalla misoginia e dall’omofobia.
I cabaret erano dipinti dal pensiero dominante come luoghi di perversione. Prefiguravano, in anticipo sui tempi, la cultura queer, le identità multiple, ma anche rivendicazioni femministe che lentamente si sarebbero consolidate in battaglie vincenti.
Questo spettacolo contempla canzoni che hanno fatto la storia e artisti capaci di coniugare l’intrattenimento con l’impegno politico. Le note corpose e ironiche del pianoforte assecondano l’estro di un mattatore capace di manipolare il linguaggio, di sferzare gli spettatori, di spaziare fra registri, timbri, stili, tonalità.
Uno spettacolo estroso, che ci proietta in un tempo ambiguo e straniante. Uno show alternativo cantato in quattro ottave, che rappresenta il climax di un festival contrassegnato dall’eclettismo.
Il nostro epilogo è tuttavia un ascolto, che ci porta all’origine di Danae nel 1999, e a Franco Battiato, che il Teatro delle Moire ha voluto omaggiare a due anni dalla scomparsa.
Ivan Carozzi, autore, giornalista, voce radiofonica, ha realizzato per Danae InOnda un podcast dal titolo “Fetus – Quando si nasce”, proprio dal nome del primo LP di Battiato, uscito nel 1972.
“Fetus” era un disco onirico, animato dall’elettronica e contrassegnato dalla sperimentazione dei primissimi anni Settanta. Albori prog, che il cantautore di Catania avrebbe finto di rinnegare in lavori successivi come “L’era del cinghiale bianco” (1979) e “Patriots” (1980), fino al rivoluzionario “La voce del padrone” (1981) che superò il milione di copie vendute.
«Non ero ancora nato che già sentivo il cuore, che la mia vita nasceva senza amore. Mi trascinavo adagio dentro il corpo umano, giù per le vene verso il mio destino». Nel suo percorso introspettivo all’interno di “Fetus”, Carozzi esplora la cellula originaria di tutta la futura cifra artistica di Battiato. È un viaggio sonoro e testuale distopico, che richiama quello di tanti ascoltatori nati intorno agli anni Settanta come Carozzi, incuriositi dal primo Battiato dopo averne apprezzato la versione sincreticamente pop.
In Danae InOnda c’è anche la riflessione sulla dimensione “spaziale” dell’album, con le voci brumose dei primi astronauti sulla Luna che deflagrano nell’“Aria sulla quarta corda” di Bach. Fino all’alienante spersonalizzazione dell’uomo alle prese con l’erompere delle macchine e del progresso.
In questo percorso fascinoso che ipotizza fantascientifici scenari di trasmigrazione dell’anima dell’artista dopo la morte, riflettiamo sulle varie forme di affrancamento di Battiato dalla forma canzone. Attraversiamo stili, strumenti, generi, dinamiche sonore e artistiche che fanno dell’autore di “Fetus” un artista sperimentale alla Stockhausen, e quindi in perfetta sintonia con l’anima raffinata e molteplice di Danae.