Democracy in America. Castellucci e l’oppressione della Parola che si fa Verbo

Photo: Guido Mencari|Photo: Guido Mencari
Photo: Guido Mencari|Photo: Guido Mencari

Quasi due ore di spettacolo, sei attrici/perfomer più 12 danzatrici “locali”, le atmosfere suggestive delle alchimie sonore di Scott Gibbons, la regia visionaria di Romeo Castellucci, i testi pregni di significati, conditi con sprizzi d’ironia, a firma dei fratelli Castellucci, Claudia e Romeo.

Flash si condensano nelle immagini che si accendono sul palco, spezzato a larghi tratti dall’epidermide scenotecnica che, come un velo opaco, immerge nell’onirico, tra incubo e sogno, le azioni che si susseguono: sono segni inconfondibili che hanno marchiato a caldo la carne produttiva della Socìetas Raffaello Sanzio sin dai suoi albori, con la parola e lo sguardo in passato altrettanto visionariamente pedagogico di Chiara Guidi.

In questo caso stiamo parlando di “Democracy in America”, in anteprima nazionale al Teatro Metastasio di Prato dopo il debutto ad Anversa, in attesa di vederlo all’Arena del Sole di Bologna stasera e domani, per poi proseguire la sua marcia da tournée fra Italia, Europa, Mondo…

Con un titolo del genere, per evitare immediati collegamenti alla politica statunitense contemporanea e una possibile presa di posizione critica nei confronti del neo eletto Donald Trump, la presentazione che fornisce la compagnia, a firma di Romeo Castellucci, è datata febbraio 2016: “Questo spettacolo non è politico. Questo spettacolo non è una riflessione sulla politica semmai una sua conclusione”.

Tratto molto liberamente dall’opera omonima in due tomi scritta da un giovane Alexis de Tocqueville dopo il viaggio compiuto nel 1831 negli United States of America (in cui indicava nella Bibbia la radice della democrazia americana), opera considerata fondamentale per il pensiero politico occidentale, la colonna spinale del nuovo spettacolo di Castellucci è fondata sul dialogo tra “Lei e Lui”, una coppia di contadini puritani in cui la donna rifiuta di entrare nel Nuovo Mondo.

Frustrati per un raccolto miserabile, colpiti dalla piaga della fame, sono anche vittime dell’oppressione della maggioranza della comunità per un furto perpetrato dalla donna per dare un senso alla loro tavola, e per questo puniti: la punizione più grande, quella per un delitto ben peggiore, che vede protagonista uno dei due figli, libra su di Lei, e per osmosi su di Lui.
Lei: “So che la colpa non è la sua, ma Lui [Dio, ndr] è indifferente, ha scelto altri anche se gli siamo stati dietro tutti questi anni”.
Lui: “Vivo per abituarmi alla contentezza del poco, ho poco di te, ti vedo poco”.
Mentre la donna si strappa le vesti parlando una lingua sconosciuta, cala sulla scena una stella, divinità ancestrale, a cui Lei rivolge i suoi versi gutturali, la bocca sdentata si digrigna, quella di Lui, altrettanto sdentata, trattiene un fiato di sorpresa e spavento nel buio in cui tutto è avvolto.

È uno dei tanti quadri amplificati da storie di fantasmi, di ombre che camminano, presenze oltre lo spazio e il tempo, di cui si compone l’organismo visivamente inquietante di “Democracy in America”, quel territorio che – dichiara Castellucci – è un passo prima della Tragedia, dove se non c’è la politica c’è la sua rappresentazione feroce. Qui si riflette, nel vero senso della parola, come nel porsi di fronte a uno specchio del luna park, con quell’immagine che si produce distorta e pluriforme, a seconda della prospettiva e angolazione, e ci si stupisce di ciò che si riconosce come parte di noi, in una ferale atmosfera di festa.

I due, la coppia, sono Giulia Perelli e Olivia Corsini, quest’ultima travestita da uomo, con grandi mani di lattice posticce a simularne la mascolinità, confermando la volontà registica di avvalersi negli ultimi anni solo d’interpreti femminili.

Ma prima della comparsa in scena di questi perdenti di fronte alla dura legge di Mosè, su cui si basava la Puritan Foundation, un patriarca già protagonista – in primis nel titolo – di una delle opere precedenti di Castellucci (“Go down, Moses”), si porranno a inizio spettacolo le radici del logos, del discorso di questo trattato visionario sul linguaggio e sulle sue conseguenze nei confronti di società e uomo, sua vittima e carnefice.

Nello spettacolo “Castellucci segue l’esempio di De Tocqueville e si pone nel tempo che precede la Politica” per realizzare “un’opera che rintraccia una celebrazione dimenticata, un rito ancora senza nome, in cui il Teatro rinnovi la sua funzione primaria: l’essere il necessario e oscuro doppio dell’agone politico e delle forme delle società della razza umana”.

Tutto avrà così inizio dalla glottologia, dallo studio strutturale del linguaggio, e di ciò che lo compone, la parola: un incipit d’intenti che caratterizza da tempo il lavoro di studio e di alchimie sceniche della Socìetas.

Dal buio in cui è immerso il palco ecco allora emergere la scritta che spiega cosa sia la glottologia, accompagnata da canti che affondano le radici nella storia di colonizzazione delle terre d’America, e delle comunità puritane.

Photo: Guido Mencari
Photo: Guido Mencari

Le radici emergono anche attraverso le 18 figure femminili, campanelli attaccati alle caviglie, che saltellano danzanti in un frastuono musicale che evoca, come le coreografie che si succederanno nel corso dello spettacolo, la tradizione folklorica di Albania, Grecia, Botswana, Inghilterra, Ungheria, Sardegna…
Le 18, munite di bandiere, comporranno anche il titolo dello spettacolo, per poi scomporlo e ricomporlo sfruttando ironici giochi di parole (“Cynic Dreamer Coma”, “Diary Mecca Romance”), fino ad arrivare ai nomi di alcuni degli Stati in cui si è tentato di “esportare la democrazia” da parte degli U.S.A.

Dal gruppo si staccherà, per spogliarsi e cospargersi di sangue, la Perelli che, con i lunghi capelli a mo’ di frusta, come una Erinni della tradizione greca, tessitrice di un futuro carico di ombre, suonerà una sorta di gong d’inizio sulla sbarra di metallo che il resto del gruppo sosterrà orizzontale sul palco. E’ la meschina vittima d’un destino quanto mai incerto nell’esattezza apparente, colma di possibilità, della Democrazia americana; anche lei succube di quella “tirannia della maggioranza” già nominata da De Tocqueville. Perché, come affermato ancora Castellucci, quando sei l’oppresso “non c’è differenza tra quella di un solo tiranno o di una maggioranza”.

Coadiuvate dagli interventi coreografici di Evelin Facchini, Gloria Dorliguzzo, Stefania Tansini e Sophia Danae Vorvila, Lui e Lei andranno dentro quelle ombre, quell’assenza di spazio e di tempo, in cui i fatti avvengono e si sovrappongono, dove, fluttuando nel logos, si vivranno rigurgiti di festa in cui ribollono liquide le basi della Tragedia, della Politica, del rapporto dell’Uomo con il Potere.

Su schermi opachi, che calano e si elevano come saracinesche di senso, e sulla quinta di fondo compaiono titoli di testa, di coda, sottotitoli, dialoghi che prendono forma come in un film muto, scritte che annunciano ed evocano…
“The Battle of Bunker Hill 1775”, “The Costitutional Convention 1787”, “The Committee of Fire, 1776” si succedono per suggellare il passo degli avvenimenti che hanno segnato la storia a stelle e strisce. In sottofondo lo scalpitio di cavalli al galoppo, lo sferragliare di spade e di guerra, voci concitate d’indipendenza…

Verso il finale due indiani compariranno sulla scena parlando nella loro lingua, sovra titolata: concludono dicendo che sono stati schiacciati da com’è stata utilizzata la parola, il vocabolario inventato per nominare e delineare le relazioni dell’esistere nel Mondo (ormai degli altri).
Sotto quella pellerossa, tolta un’epidermide rappresentante minoranza e oppressione, si rivelano nude Perelli e Corsini. Ricomparse le altre 16 vestali, impugnata di nuovo la sbarra dorata, entrambe di fronte a quel limite da valicare, nude ma incarnanti ancora un simulacro di valori ancestrali, fanno risuonare il gong del tempo con frustate di capelli, in questo ritrovarsi al principio, nel mezzo e alla fine di tutto.

Il viaggio, delimitato da quei gong, arriva sì alla conclusione della politica, ma nel senso delle conseguenze che può creare la Parola, il Verbo dell’Uomo sull’altro Uomo, quando a fare la differenza è chi ha denaro sufficiente per appropriarsi dei mezzi di comunicazione. E, come lo stesso Orson Welles mostrò in “Quarto potere”, di una Verità (U.S.A. e getta?).

DEMOCRACY IN AMERICA
Liberamente ispirato all’opera di Alexis de Tocqueville.
Regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci
Testi di Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
Musica: Scott Gibbons
Con: Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
e con dodici danzatrici locali
Coreografie liberamente ispirate alle tradizioni folkloriche di Albania, Grecia, Botswana, Inghilterra, Ungheria, Sardegna;
con interventi coreografici di Evelin Facchini, Gloria Dorliguzzo, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
Assistente alla regia: Maria Vittoria Bellingeri
Maestro di prove: Evelin Facchini
Sculture di scena, prosthesis e automazioni : Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso
Realizzazione costumi: Grazia Bagnaresi
Direzione di scena: Pierantonio Bragagnolo
Tecnici di palco: Andrei Benchea, Giuliana Rienzi
Datore luci: Giacomo Gorini, Andrea Sanson
Tecnico del suono: Paolo Cillerai
Costumista: Elisabetta Rizzo
Decoratore: Silvano Santinelli
Fotografo di scena: Guido Mencari
Direzione tecnica : Eugenio Resta
Equipe tecnica in sede: Carmen Castellucci, Francesca Di Serio,
Gionni Gardini, Daniele Magnani
Responsabile di Produzione: Benedetta Briglia

durata: 100’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Prato, Teatro Metastasio, il 30 aprile 2017

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