Nato come serie di 14 episodi stop-motion nella primavera del 2020, il lavoro di Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti è ora uno spettacolo nonsense sulle angosce del primo lockdown
Difficile parlare della recente pandemia senza ricorrere alla metafora, e a una vena tra l’assurdo e il grottesco. Teatrino Giullare si accosta al tema del primo lockdown (marzo-aprile 2020) con “Diario dei giorni felici”, seconda parte di un dittico beckettiano i cui prodromi risalgono addirittura al 2000, quando la compagnia fondata e diretta da Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti produsse “Finale di Partita”, gioiellino con maschere, pupazzi e scacchiera destinato a una serie di riconoscimenti in Italia e all’estero.
Nato tre anni fa, “Diario dei giorni felici” è un lavoro non meno interessante. Proprio mentre la compagnia lavorava alla messinscena di “Giorni felici” di Beckett, scoppiava l’epidemia da Covid-19 che avrebbe causato la chiusura di cinema e teatri. Gli operatori dello spettacolo dal vivo («i nostri artisti che ci fanno tanto divertire, ci fanno tanto appassionare», li definì così l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte) furono colpiti in maniera esiziale da uno stallo che bloccò rappresentazioni, tournée e festival.
Proposto all’Elfo Puccini di Milano all’interno di una personale beckettiana dedicata alla compagnia di Sasso Marconi, “Diario dei giorni felici” è il resoconto plurilinguistico di quei giorni d’incertezza e paralisi.
Un’insondabile soggezione s’impossessò delle nostre vite. Se qualche teatrante sprecava ore a sproloquiare sui social, altri artisti provavano a trasformare quella crisi in fervore creativo. Era difficile tuttavia trovare nuovi linguaggi che prescindessero dall’incontro fisico. Qualcuno provò a raccogliere l’eco di quel dolore, a superare alienazione e solitudine mediante un uso consapevole, originale, non velleitario, della visual art o dello streaming.
Teatrino Giullare rispose alla quarantena con quattordici episodi stop-motion di circa un minuto ciascuno: ognuno era una chiave emotiva per accostarsi a quel “tempo sospeso” e al suo corredo di patemi e ricordi. Stop-motion, dunque, o più correttamente, puppet animation: per conferire vita propria e pupazzi e fantocci, così simili a ciò che eravamo diventati.
Ombrellini e teste in fumo. Corpi corrosi ridotti a verminai. Montagnole trasformate in torte nuziali. La paura di trovarsi davanti a ore da riempire prima del «campanello del sonno».
Nella piccola sala Bausch dell’Elfo Puccini, i video realizzati da Teatrino Giullare durante la quarantena, premiati con il Premio Rete Critica 2020 ed il Premio Hystrio Digital Stage 2021, ora puntellano l’oretta di uno spettacolo vero e proprio.
La casa come una tana. La stanza come rifugio. Due attori in abiti scuri – o quel che resta di loro – dimezzati, disarticolati, sprofondati sopra un divano. Riconosciamo in Teatrino Giullare le controfigure che eravamo in quei giorni di quarantena: Dall’Ongaro avvizzita dentro un diario; Deotti silente, inebetito, nascosto dietro un giornale.
Lei e lui: sono proprio Winnie e Willie di “Giorni felici”. Winnie chiacchiera flemmatica in modo tragicomico. Willie è fuori scena anche quando è in scena. Assistiamo sfibrati a questo dramma della dissociazione, ognuno a ridestare in maniera personale il delirio di quelle settimane.
Ma se il dramma di Beckett si presentava come una partitura sincopata di parole, silenzi e gesti, nella condizione anti-realistica e simbolica della donna incastrata a terra e costretta all’immobilità, il lavoro di Teatrino Giullare si lega alla tradizione drammaturgica del monologo-confessione che da Cechov va a Pinter, lambendo Pirandello e Koltès.
Beckett aveva prefigurato l’uso limitato del corpo, strumento espressivo per eccellenza. Qui l’inerzia delle membra anticipa l’apoplessia dei pensieri. Il rimbalzo tra Beckett e la pandemia registra vari livelli di inibizione. I protagonisti sono immobilizzati: Winnie indolente e spossata; Willie evanescente e smidollato, una larva capace a malapena di rovesciare sulla scena fumosa, pervasa da una penombra bituminosa, un vaso con una pianta d’alloro, nella cui terra pianta due fantocci, emblemi di una decomposizione sopraggiunta anzitempo.
C’è poi il terzo livello dello stop-motion, con le stesse bambole cadenti, scorticate, conficcate in un intruglio di sabbia, terra e cenere.
Si esaspera un senso di smarrimento che è fisico e simbolico, teatrale e metateatrale. Le bambole si deteriorano fino a consumarsi, evaporano nella narrazione filmica. Il disagio è sconforto pervasivo. Ogni anelito di fuga è aleatorio.
“Diario dei giorni felici” usa Beckett, l’assurdo, i pupazzi e l’animazione per evocare un’epoca e il suo sconforto. In questo lavoro c’è il silenzio della quarantena: Teatrino Giullare lo intercetta e lo riempie di suggestioni sonore.
La penombra si riempie di fragori sinistri e risate crudeli, cui fa da contraltare una musica ora soave, ora bigia, opaca, surreale. Un pettine. Dentifricio e spazzolino. Uno specchio e un rossetto. Un parasole e una rivoltella. Un flacone di pastiglie, per dormire o per stordirsi.
“Diario dei giorni felici” è afflizione per antifrasi. È vita senza nerbo dove un attimo vale l’altro, e una noia morbosa si nasconde dietro una cortina elettrizzante. Non servono le gambe, perché non c’è un altrove dove andare. Tuttavia si continua a vivacchiare, pettinarsi, lavarsi, curarsi.
“Diario dei giorni felici” è smarrimento e narcolessia. È l’enigma dell’incomunicabilità. È uno spettacolo sottovoce, metafora di uno stallo affine alla poetica ora di Munch, ora di Hopper.
Malgrado tutto, affiorano frammenti di speranza. Ma l’ironia, l’arte, il limite, sono fili esili, residui di un adattamento che – anche quando punta alla vita – spesso svigorisce nell’abitudine e nella sopravvivenza.
Diario dei giorni felici
uno spettacolo costruito, interpretato e diretto da Teatrino Giullare
ispirato dal testo di Samuel Beckett
produzione Teatrino Giullare con il sostegno della Regione Emilia Romagna
durata: 1 h
applausi del pubblico: 1’ 30”
Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 3 marzo 2023