«L’oscuro intrico del bosco, / una chiara sorgente d’acqua, / una zingara dagli occhi neri, / le sue bianche ginocchia: / queste quattro cose, finché avrò vita, / non potrò mai dimenticarle»: così Jan il contadino fissa nella memoria quattro immagini del momento e del luogo in cui ha ceduto al fascino selvaggio della zingara Zefka, che lo ha aspettato per giorni nel bosco di ontani al limitare del suo campo.
Jan ha resistito, lavorando i solchi con l’aratro ma poi, destino!, il vomere spezza il perno che lo sostiene e lui è costretto a farsene un altro proprio di legno d’ontano: passa il confine del campo e sprofonda così nel bosco come nella sensualità feroce e irresistibile della donna.
Sarà forse per questo, per l’evidenza di matrice erotica delle immagini visive, richiamate spesso dai versi del compositore ceco Leóš Janáček, comparsi per la prima volta sul quotidiano di Brno “Lidové Noviny” nel 1916, che Ivo van Hove, direttore artistico del Toneelgroep Amsterdam e regista della versione scenica del ciclo di lieder “The diary of one who disappeared” (“Zápisník zmizelého” in ceco), decide di ambientare in uno studio fotografico la sua regia. Abbiamo quindi vasche per lo sviluppo, lavagne luminose, schermi di proiezione, luci rosse di prassi e liquidi e carta fotografici.
Il lavoro, la cui drammaturgia è affidata a Krystian Lada, mette sul palco del Teatro Argentina, ospite di Romaeuropa, oltre ai due protagonisti (tenore e mezzosoprano), la pianista accompagnatrice (Lada Valesova), per la verità un po’ soffocata acusticamente dalla scenografia, e un terzo uomo, vestito come Jan ma molto più anziano, che interviene nell’azione. Si tratta con tutta evidenza della figura del vecchio Janáček, partecipe dei tormenti del suo alter ego e all’occasione interprete di passi dalle lettere del compositore. D’altronde Janáček ha steso questa come altre musiche tarde sotto l’influsso dell’amore, senile ma travolgente, per la giovane Kamila Stösslovà, conosciuta in una località di cura e più giovane di lui di quarant’anni, a cui dedicherà il miracoloso Quartetto n°2, intitolato appunto “Lettere intime”: l’incursione non sarebbe dunque fuori luogo.
L’ambiente fisico di questa narrazione, ora in prima, ora in terza persona, un amore maledetto e inaccettabile che spingerà l’amante a seguire lontano da casa la donna e il figlio nato dal loro amore, non è per Van Hove il campo coltivato. E già questa è scelta forte, perché gran parte della produzione di Janáček porta invece inciso tra i suoi temi proprio quello della campagna, della terra natia lasciata alle spalle, viscerale e brutale insieme, della memoria, della nostalgia e del distacco volontario ma dolente.
Ad alludere a questo tema centrale è solo uno schermo illuminato sul fondo, che mostra la foto di un bosco, davanti al quale è posizionato il pianoforte. Ma l’ambiente vero e proprio è fisico, è emotivo, psicologico potremmo dire.
Quell’incursione di cui si diceva, l’ingombrante figura del geniale vecchietto stordito sul candido declino da un amore sensuale e folle, catalizza l’attenzione del regista e occupa prepotentemente la scena, limitando l’esaltazione di quanto nel testo chiedeva urgentemente di emergere: il desiderio, l’erotismo, il traviamento, l’abbandono del consorzio umano a cui pertengono leggi che non è più possibile rispettare; tutto ciò è ridotto a un mero chiosare biografico.
Il vecchio beve, e brinda con Jan, il vecchio vede il corpo nudo della giovane, il vecchio porta in scena un’urna e butta via le ceneri (della moglie?), sostituendole con carta straccia (lettere intime, anche qui?). Come se la giovinezza di Jan, che magari era la stessa che in cuore si sentiva il vecchietto Leóš, tanto più forte nel contrasto tra età incompatibili, fosse costantemente scoperta nell’improbabile figura dell’anziano cadente e languido, e lo spazio di un peccato sentito come giovanile in fondo comprensibile, “sano”, scenicamente inquinato da quello di un tremolante vedovo in fregola.
Così, se l’ormai comune pratica del teatro musicale di sovrapporre non solo una drammaturgia “seconda” rispetto a quella propria del testo, ma anche di intervenire con interpolazioni musicali e testuali – si veda per esempio il discusso e recente “Zauberflöte” a firma Castellucci a Bruxelles –, qui pregevole opera di Annelies Van Parys, in “The diary of one who disappeared” in più di un’occasione si ha l’impressione che alla scommessa e all’assunzione di responsabilità derivante dal mettere mano a una simile operazione corrisponda un risultato didascalico, che insiste continuamente per far emergere un sottotesto che ha valore proprio perché è sotto. Una scelta povera, meccanica.
Anche la recitazione, che vorrebbe essere scevra dei “bei gesti” melodrammatici, non sempre ne risulta indenne, e lascia talvolta i cantanti preda di movimenti di prassi.
La parte musicale, come quella tecnico-scenica, è peraltro affrontata con sicurezza dai cantanti: Ed Lyon è espressivo anche se mostra qualche insicurezza nel registro acuto, specialmente nelle salite richieste da “Sbohem, rodný kraju”, ultimo dei 22 brani, che si spinge fino al do4 creandogli qualche patema di troppo; Marie Hamard è penetrante e gode di un bel timbro, anche se non uniforme nei tre registri; corretto il piccolo coro fuori scena.
Il risultato è una buona confezione. Pensata? Certo, ma forse nella direzione sbagliata: e in automatico, ricadendo alla scorciatoia biografica, in misura insufficiente all’obiettivo di approfondire un testo, o nell’impresa pur entusiasmante di illuminare semplicemente una pagina preziosa, poco nota al pubblico italiano.
The Diary of One Who Disappeared
Composizione Leoš Janácek, Annelies Van Parys
Direttore Ivo van Hove
Assistente del direttore Jaap Dieleman
Mezzo-soprano Marie Hamard
Tenore Ed Lyon Attore Wim van der Grijn
Pianoforte Lada Valesova
Coro membri della Choral Academy of De Munt, La Monnaie: Trees Beckwé, Lisa Willems, Isabelle Jacques
Drammaturgia Krystian Lada
Scene Jan Versweyveld
Costumi An D’huys
Produzione Muziektheater Transparant
Coproduzione Toneelgroep Amsterdam, Klara Festival, De Munt/La Monnaie, Kaaitheater, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Opera Days Rotterdam, Beijing Music Festival
Foto © Laura Makabresku Foto galleria © Jan Versweyveld
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 6 ottobre 2018