Dire la bellezza: un nuovo David Harrower

Malalingua - Coltelli nelle galline
Malalingua - Coltelli nelle galline
Malalingua – Coltelli nelle galline (photo: tofringe.it)
“Il mondo, con i suoi tesori, è sempre davanti ai miei occhi. E io devo solo piantargli sopra un nome come quando pianto il coltello in una gallina”.

Si dovrebbe partire da un’analisi sulla complessità drammaturgica di David Harrower per parlare in modo dettagliato di “Knives in Hens”, e di come questo testo, che debuttò sulla scena nel 1995, s’inserisca all’interno di uno stile e di una scelta semantica così eterogenea, ma ugualmente rispondente a quella tensione ritrattistica, comune a tutte le opere di Harrower, che eleva la condizione umana a suo privilegiato soggetto e che ci fa sentire oggi tutta la profonda attualità dell’autore scozzese.

Dalla fitta trama delle relazioni che si ordiscono nel quotidiano, emergono i retaggi culturali più ancestrali di cui siamo portatori sani; così assistere a “Knives in Hens” per la regia di Antonio Syxty, produzione di Teatro Litta e compagnia Malalingua, significa essere colpiti da un’estetica e da un filtro narrativo che hanno saputo valorizzare l’immaginario di una penna che ha tutte le reminiscenze di quei discorsi sullo spirito dell’etica protestante di cui scriveva Weber in senso critico. “Knives in Hens” rappresenta una comunità rurale allegorica, specchio di una società capitalistica vittima del suo protratto fallimento umano.

E non è un caso, quindi, se questa messa in scena nostrana, presentata nei giorni scorsi al Torino Fringe Festival, ci riporta ai tagli stilistici di un mondo nordeuropeo conosciuto, negli ultimi decenni, prevalentemente attraverso le lenti cinematografiche: in quel mondo si contestualizza l’estetica, ma a noi, per inevitabile assimilazione tematica, si riconduce.

“Knives in Hens” è una parabola moderna dalla sacralità cupa e dai forti chiaroscuri, pervasa dal contrapporsi dinamico di sacro e profano. La moglie di uno stalliere, una donna priva di nome, come un’Eva biblica che deve tacere il suo bisogno peccaminoso di conoscenza, lotta inconsciamente contro la povertà di una parola che non sa sfumare i sostantivi del mondo, che non sa denotare la bellezza del creato e la perfezione della natura rigogliosa, una povertà di parola che le lascia la lingua corrosa dall’acidità salmastra dell’inespresso.
Sarà un reietto a rendere cosciente questa sua lotta, un mugnaio esiliato e vittima della maldicenze del paese, un uomo solo, abbandonato nella fatica e privato di ogni riconoscenza, che donerà alla donna la libertà dalla superstizione e, con la scrittura, renderà il suo in-espresso esprimibile.

Quella che appare è un’umanità regredita allo stato primordiale, una temporalità sospesa in un destino involuto: la parola è minima, quasi segnica, rozza ed ingenua, e si riproduce in un’attoralità attonita e tirata, senza spezzature di ritmo.
La continuità scenica, creata dall’assenza di quinte e dalla presenza in contemporanea di tutti gli ambienti narrativi, simbolicamente divisi da stipiti in ferro, getta in una dimensione simbolica e senza fuga le stanze del vissuto di questi individui senza tempo, né parola, né nomi propri (raramente e solo timidamente accennati).

La denotazione, l’atto del significare, del dire e del descrivere, portati alla loro insignificanza e transitorietà, si manifestano anche attraverso la povertà degli oggetti, l’essenzialità fisica della loro distribuzione nello spazio, la rudimentalità delle loro fattezze. Tutto trasmette freddezza, severità, spirituale indigenza.
In questi elementi rappresentativi, come si accennava agli inizi, si colgono le somiglianze con le istanze di una tra le più note correnti cinematografiche importate dal Nord, Dogma 95, di cui autori come Lars Von Trier e Thomas Vinterberg sono stati i capostipiti.

E’ nel rifiuto degli “effetti speciali” della messa in scena che si lascia l’attoralità alla sua nuda pesantezza. Anche la struttura narrativa segue questa scarnificazione e i tempi del racconto sono suddivisi dalla presenza di didascalie essenziali, proiettate su un telo nero retrostante la scena; dal prolungato urlo di una sirena industriale richiamare all’ordine, come una briglia fare leva sul collo di un animale, queste figure umiliate, fragili, dure.

Un’atmosfera grottesca, drammatica, sottilmente violenta è quella di “Knives in Hens”, speculare alla volontà provocatoria e sciamanica delle performance di Joseph Beuys, afferma Antonio Syxty nelle sue note di regia, performance da cui riprende gli elementi della coperta e del bastone, in una ripetizione volutamente ossessiva, che neghi identità ai personaggi. Ma anche di “La Signora Ceppo” e “Twin Peaks” di David Lynch, di cui recupera le stesse atmosfere d’angoscia e il senso latente d’alienazione.

Antonio Syxty dirige uno spettacolo che sa essere una vaccinazione e che, per indurre i nostri anticorpi ad esistere, proprio come un vaccino, ci contagia attraverso ogni dettaglio con l’immagine di un’umanità agonizzante, che sceglie di decomporsi nelle paure e nella pretesa di isolare l’individuo in un mutismo igienico e sterilizzato laddove muore la vita.
Da vedere.

KNIVES IN HENS
di David Harrower
traduzione: Alessandra Serra
regia: Antonio Syxty
con: Marianna de Pinto, Marco Grossi, Fabrizio Lombardo
scene e costumi Guido Buganza
luci e immagini: Fulvio Melli
staff tecnico: Alessandro Barbieri, Ahmad Shalabi
direttore di produzione: Gaia Calimani
produzione: Teatro Litta Produzioni e compagnia Malaligue

durata: 1h ca.
applausi del pubblico: 1′ 55”

Visto a Torino, Teatro Officina – Cecchi Point, il 6 maggio 2014


 

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