Insieme al Premio Scenario, a Forever Young di Corte Ospitale, al romano Dominio Pubblico, al Festival 20 30 di Bologna e a poche altre meritevoli iniziative, Direction Under 30, organizzata ogni anno dall’associazione che gestisce il Teatro Sociale di Gualtieri, ci offre la possibilità di tastare con mano le prove artistiche di giovani compagnie che si affacciano per le prime volte al difficile mondo del teatro italiano.
La manifestazione ha poi l’ulteriore pregio, non solo di strutturarsi come concorso e festival di spettacoli di compagnie under 30, ma anche di essere interamente gestito da spettatori della stessa età, riuniti in giurie che li selezionano, approfondiscono ed infine premiano.
Direction Under 30 nasce nel 2014 dalla volontà di creare un luogo di confronto fra artisti e spettatori nel segno di un’orizzontalità generazionale, priva di gerarchie: un concorso e un festival di tre giorni percepiti come una festa per giovani compagnie, diretto da giovani spettatori, e un’occasione anche per giovani critici di sperimentarsi nella produzione di contenuti media, recensioni e racconti. Questi vengono poi pubblicati sul Papavero Blog, diario e testimonianza di ogni edizione.
Dal 28 al 30 agosto anche noi siamo stati a Gualtieri, il paese che ha visto gran parte della vicenda umana di Antonio Ligabue, per la settimana edizione. Abbiamo assistito ai sei spettacoli finalisti, assai diversi tra loro, che hanno utilizzato altrettanti modi di approccio diversi alla scena: teatro d’immagine, teatro danza, narrazione civile, apologo surreale, indagine sociologica e il comico come metafora del mondo.
Un’edizione assai particolare, a causa dall’emergenza sanitaria in corso, a cui hanno assistito solo gli addetti ai lavori, ma allo stesso modo stimolante, sia per conoscere nuove occasioni drammaturgiche, fuori dai soliti schemi e nomi, sia per lo scambio di sguardi con spettatori appassionati molto più giovani.
L’apologo surreale è presente ne “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza” della compagnia Les Moustaches di Fara Gera d’Adda. E’ una storia ambientata in una provincia (forse non tanto immaginaria) di un’Italia sperduta, in cui vive la famiglia Speranza, formata dal padre Sebastiano e dai figli Dennis e Ciccio.
Mentre il padre e il fratello vivono la loro vita nelle faccende sempre uguali della terra da coltivare, fra cassette di frutta e ortaggi, avendo come unico sollazzo il gioco della morra, Ciccio ha un sogno troppo grande per poter rimanere chiuso in un luogo così buio e monotono: vuole danzare.
Ciccio vuole scappare da quel luogo, immaginando una vita diversa e riverberando la sua luce di cambiamento e d’amore anche al fratello. Grasso e sgraziato in tutù rosa, non smetterà mai di danzare, raccontandoci la sua vita solo sognata, così come la desidera.
Lo spettacolo vive sul bel testo di Alberto Fumagalli, e anche per la credibilità del trio di interpreti: Francesco Giordano, Giacomo Bottoni e Antonio Orlando, che si esprimono in una lingua reinventata che sottolinea in modo convincente l’ambiente in cui viene parlata.
La creazione avrebbe bisogno, secondo noi, di un’ulteriore spinta sul versante parossistico, sia riguardo la danza di Ciccio, sia al suo linguaggio, facendo uscire il personaggio dai facili e ormai abusati stereotipi della diversità, per renderlo invece motore di un cambiamento radicale del contesto in cui vive la propria anima.
Lastricato di buonissime e coraggiose intenzioni ci è sembrato “L’eco della falena” di Cantiere Artaud, che quasi senza parole vuole restituire al pubblico il mondo, la vita e soprattutto l’immaginario della scrittrice inglese Virginia Woolf, ma che, nel contempo, vuole essere, negli intenti del regista Ciro Gallorano, anche una dissertazione per immagini sul tema del Tempo, primo tassello di una trilogia che dovrebbe comprendere Ingmar Bergman e Marcel Proust.
Gli echi provenienti dai capolavori della scrittrice inglese (“Gita al faro”, “Mrs Dalloway”, “Le Onde”) vengono riverberati sul palco: qui una donna, Sara Bonci, accompagnata dalla “parvenza” maschile di un uomo, Filippo Mugnai, contrassegnato come passaggio del Tempo, ci guida nei meandri della sua camera, uno spazio-tempo sospeso, di malinconica sostanza, dove l’esterno è contrassegnato solo da una porta che fa intravvedere ombre fugaci di misteriose presenze e foglie cadenti.
Ci pare tuttavia che l’assunto proposto dal regista rimanga ancora in superficie, e che lo spettatore non riesca ancora ad aderire in maniera profonda all’atmosfera suggerita dall’audace progetto.
Anche “The Ridere” di Salvatore Aronica e Daniele Turconi, con in scena lo stesso Aronica e Stefano Barra, è lastricato di buone intenzioni: misurare, come aveva già fatto in qualche modo attraverso la danza Alessandro Sciarroni con “Augusto”, lo spessore del mondo attraverso il riso. Al centro dello spettacolo una coppia di comici, Pappa e Gallini, una coppia comica che cerca di far ridere non riuscendoci minimamente, che si parla addosso e cerca il consenso a suon di tormentoni, raccontando al pubblico, tra sogno e realtà, tutte le proprie ambizioni di successo, represse in un gioco al massacro che potrebbe prevedere anche la morte di uno dei due.
Mescolando ricordi personali, fallimenti di onorata carriera e condivisioni positive di esperienze, vi è un continuo riferimento alle grandi coppie comiche del passato, da Oliver Hardy e Stan Laurel a Zuzzurro e Gaspare, dove il loro riso, semplice e comunicativo, nobilitava l’esistenza di tutti. Quel mondo, ricordato con nostalgia, viene messo da Aronica e Barra in correlazione con un presente in cui il ridere per avere successo deve necessariamente essere collegato a doppi sensi razzisti o di dubbio gusto.
Molte le fervide suggestioni disseminate durante lo spettacolo, ma che ancora non riescono a comporre un discorso unitario, un affresco convincente, tali da esprimere una reale analisi della realtà in cui siamo immersi.
La danza è stata presente al festival nel pregevole progetto “Mary’s Bath” di Natiscalzi DT, uno spettacolo che si configura come un’interessante ricerca iconica sul tema dell’Annunciazione, uno studio sospeso fra sacro e profano, tra cielo e terra.
Ludovica Messina, per mezzo di pochi oggetti e lunghi teli, mossa da una specie di inserviente, Tommaso Monza, che si presta di volta in volta ad essere trovarobe, angelo e confidente, riverbera la figura di Maria in un immaginario, spesso intriso di gustosa ironia, accompagnato dalle musiche, che spaziano da Monteverdi al canto gregoriano fino a Freddie Mercury.
“Mary’s Bath” risulta anche essere una riflessione sulla vita a partire dal suo punto d’inizio: il concepimento, che ben si materializza nel bellissimo finale corredato dal verdiano “La vergine degli angeli”, dove l’apparizione di Claudia Rossi Valli (che ricordiamo meravigliosa interprete de “La morte e la fanciulla” di Abbondanza/Bertoni) veramente incinta, immerge la performance in una commovente e commossa adesione totale all’assunto della performance.
Lo spettacolo che ha vinto meritatamente il premio, che ha riunito la giuria popolare e quella artistica, è risultato “Apocalisse Tascabile”, interpretato con giovanile euforica baldanza dai romani Lorenzo Guerrieri e Niccolò Fettarappa Sandri, che ha concepito anche il testo.
Meritatamente perché si è rivelato lo spettacolo che, più di ogni altro, ha messo in scena la realtà emozionale – tra illusioni e disillusioni – dei giovanissimi fruitori e organizzatori, scelti come protagonisti assoluti di Direction Under 30.
“Apocalisse Tascabile” risulta infatti essere una vera e propria invettiva contro le regole imposte a tutta una generazione che invece chiede con forza di essere fautrice del proprio futuro, rispetto alle altre che tutti gli spiragli di futuro occupano proditoriamente.
Lo spettacolo, diviso in molteplici sequenze che si susseguono in un flusso continuo di provocazioni e di ribaltamenti sarcastici, rimanda direttamente alla situazione di una generazione come quella dei due interpreti, considerati come elementi da scartare, da liquidare, messi all’angolo perché inutili, per di più in contesto come quello della città di Roma vista come una madre matrigna, un luogo respingente in perenne putrefazione.
Sulla scena, tra battute fulminanti intrise di feroce autoironia, c’è la rabbia di tutto questo mondo, così prorompente nella sua vitalissima acerbità, ma già così defunto, che si esprime anche con l’utilizzo significativamente vorticoso degli oggetti.
Sarebbe forse necessario misurare la frenesia vitale della parola, che rischia a volte movenze cabarettistiche, lasciando maggiore spazio alla profondità necessaria di alcune ritualità silenziose, così vitali per il teatro, come nella potente scena finale, in cui le croci invadono il palcoscenico, pur comprendendo che il modus operandi dei due bravissimi interpreti nasce dall’esigenza di esprimere un teatro in qualche modo politico, che non ammette tentennamenti.
Lo spettacolo che ha vinto il premio affidato al giudizio dei giovani critici è andato infine ad Alessandro Sesti per il suo spettacolo “Ionica”.
Sesti, artista che già conoscevamo per la sua predisposizione riguardante la narrazione civile (“Fortuna” e “Luca 4,24”) ritorna ai temi che gli sono più congeniali narrando la storia di Andrea Dominijanni, testimone di giustizia calabrese che nel 2014 ha avuto il coraggio di denunciare la ‘ndrangheta, presente come cancrena nella sua terra. Complice del racconto un trio musicale di tutto rispetto formato da Debora Contini al clarinetto, Federico Passaro al contrabbasso e Federico Pedini alla chitarra, con una musica che sottolinea emozionalmente i fatti salienti, intersecando il viaggio che il protagonista, con tanto di panettone, compie dalla natia Umbria verso Sant’Andrea Apostolo dello Jonio, in Calabria, invitato da un amico molto particolare in occasione delle feste natalizie.
In sottofondo gli stereotipi sociali di una “terra arida, difficile da coltivare e sofferente” in cui l’‘ndrangheta ha facile dimora.
Il viaggio, piano piano, diventa occasione non solo per approfondire la vicenda del testimone di giustizia, ma soprattutto per indagare il clima di omertà che sta intorno alla vicenda e che ne favorisce l’assuefatta dimenticanza ed il conseguente silenzio.
Il bellissimo finale, con la confessione di Andrea Dominijanni, ha il pregio di essere svuotato dalla facile retorica, inserendosi come parte di una sequenza cinematografica che ne approfondisce la valenza, sempre sottolineata da un accompagnamento musicale di grande suggestione.
Ci piace notare come Sesti abbia raggiunto, con “Ionica”, una maturità espressiva che dovrà essere messa alla prova anche con altri tipi di performance, che gli permettano di uscire dalla “gabbia”, pur necessaria nei tempi che stiamo vivendo, della narrazione di impianto civile, per misurarsi magari con nuovi e più inaspettati percorsi.