E’ bal. L’aspra musicalità dialettale di Teatro delle Albe

Photo: Cesare Fabbri
Photo: Cesare Fabbri

“Per scambiare le proprie opinioni o per commerciar patate è utile che ognuno di noi conosca la lingua dell’acquirente. Per esprimere la propria creatività è indispensabile che ognuno di noi si serva della propria lingua”.
Con queste parole Fabrizio De Andrè introduceva, nel 1992, l’album dei Tazenda “Limba”, quasi completamente in sardo. Gli anni Novanta diedero nuova linfa agli idiomi regionali e ai dialetti, rispolverati a metà anni Ottanta dopo decenni in cui erano stati relegati a fenomeno folclorico provinciale.

Un quarto di secolo dopo, vernacoli e lingue regionali sono ancora più in salute, in barba a globalizzazione, europeizzazione e inglese galoppante.
“E’ bal” del Teatro delle Albe, di e con Roberto Magnani e Simone Marzocchi, testo Nevio Spadoni, musica Simone Marzocchi, proposto a Milano da Olinda per la rassegna “Da vicino nessuno è normale”, s’innesta nel filone dialettale del gruppo ravennate, che parte negli anni Ottanta con spettacoli come “Bonifica” e “Refrattari”, e arriva a “Odiséa” del 2009.

Come “Odiséa”, “E’ bal” sfrutta il lirismo visionario di Nevio Spadoni ed esalta la musicalità di un testo in quinari attraverso le note di Simone Marzocchi, versatile trombettista dalle sonorità intuitive, fisiche, informali.
“E’ bal” (il ballo) è una storia di paese, i cui tratti fiabeschi sarebbero piaciuti ad altri due romagnoli veraci come Tonino Guerra e Federico Fellini. Sono le peripezie di Ezia, una 36enne reietta dalla vita: origini familiari incerte e un amore spezzato dopo sette anni di fidanzamento. Ezia, dolore e ghettizzazione. Tra maldicenze e angherie, derisioni e ipocrisie.
Intanto gli anni passano. Il sogno di riabilitarsi. Il bisogno di un nuovo amore, irriso dalla vecchiaia. Martoriata dalla vita che le si accanisce contro in maniera grottesca, Ezia prova faticosamente a elevarsi, in cerca di pace interiore. Ricordi e presente s’inseguono. Stanca e sconnessa, sfibrata dalla solitudine, Ezia è il proprio delirio. È l’inganno, che prelude alla morte.

Lo sfondo asettico dell’ex ospedale psichiatrico Gaetano Pini di Milano, chiuso vent’anni dopo la legge Basaglia, è scenario ideale per questo psicodramma in cui si susseguono spazi chiusi e aperti, passato e presente, lucidità e follia.
Una lastra d’acciaio. Una cornice ossidata è specchio, porta, passaggio di mostri reali e fantasmi dell’anima. Sulla scena anche una vecchia sega, deturpata dalla ruggine. Una macchina per cucire a pedali produce suoni avvolgenti: come un vortice, ci sballotta qua e là per il tempo.

Capelli impomatati, sguardo allucinato, abito grigio e papillon, camicia bianca merlettata, Roberto Magnani si produce in un monologo di forte impatto fisico e sonoro. Giochi di luce sul viso, sul corpo, nella penombra, avviano i cambi di scena. Questo personaggio androgino assume identità multiformi: maschili, femminili, singole, corali.
Il filo rosso è un dialetto stretto, antico, che più ermetico non si può. Per lo spettatore che non sia di quelle parti (Ville Unite, a sud si Ravenna) è impossibile coglierne il significato. Se ne assapora tuttavia l’asprezza terrigna e rugosa, il suono cupo, cavernoso, terso, ferreo, amplificato dagli stridori e dagli affetti acustici metallici informali di Marzocchi. È una musica che non è accompagnamento ma contrappunto che esalta la parte simbolica del verso. Suono e parola si sviscerano e alimentano vicendevolmente.

Attraverso la disarmonia, nel riverbero di qualche immagine, tra nebbiose analogie e metafore, nell’avvicendarsi di luce e oscurità, urla e silenzi, affiora la potenza del ballo. La voce prevale su tutto. Essa è vento, ruggine e sabbia.
Vibrano gli stati d’animo della protagonista. Ezia, lo sguardo perso nel vuoto, è una marionetta in balia degli eventi. Spaesata, in attesa del prossimo colpo da incassare, è una danzatrice nel buio. La sua forza narrativa tuttavia si manifesta, fagocita narratore e pubblico.
La nostra è una percezione stordita delle disavventure di una donna matta, di una strega violenta e fragile. Soffi, bagliori, sfregamenti. La prova attoriale di Roberto Magnani è trascinante. È lecito tuttavia domandarsi se la purezza nuda e cruda di un dialetto romagnolo così stringente e aspro possa rinunciare ai sovratitoli, affidandosi solo allo slancio di un pubblico volenteroso.

E’ BAL
di e con: Roberto Magnani e Simone Marzocchi
testo: Nevio Spadoni
musica: Simone Marzocchi
realizzazione strumenti musicali: Giovanni Cavalcoli, Fabio Ceroni, Roberto Magnani, Danilo Maniscalco, Simone Marzocchi
tecnico luci e suono: Fagio
tecnici di produzione: Fagio, Andrea Napolitano, Massimiliano Rassu
organizzazione e promozione: Silvia Pagliano; Francesca Venturi
produzione: Teatro delle Albe/Ravenna Teatro

durata: 50’
applausi del pubblico: 2’ 30”

Visto a Milano, ex Ospedale Psichiatrico Gaetano Pini, il 12 luglio 2017

0 replies on “E’ bal. L’aspra musicalità dialettale di Teatro delle Albe”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *