Partiamo da Vicenza. Il suo teatro Olimpico, si sa, è qualcosa di stupefacente. Non per niente nel 1994 è stato inserito nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco; è impossibile non restare a bocca aperta di fronte a un’opera d’arte così unica e immutabile. Proprio quest’ultima caratteristica aveva creato però un’ingessatura nell’utilizzo del teatro, che l’anno scorso l’amministrazione comunale ha ritenuto necessario smantellare.
“Nuova vita ai classici” reclamava quindi la città palladiana per eccellenza, e in aiuto è arrivato un maestro del settore: Eimuntas Nekrosius.
Ma una stagione – nonostante i bei risultati raggiunti – è poca cosa per dare un volto nuovo a ciò che è r-esiste da anni.
Fortunatamente l’amministrazione ha continuato a portare avanti la sfida, e nuovamente ha mostrato il suo “carattere”, affidando per il secondo anno al regista lituano la direzione artistica del 66° ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico.
Il contemporaneo rinnova così il classico, e il classico si confermerà contemporaneo attraverso la personale visione di Giorgio Barberio Corsetti, Serena Sinigaglia, Pippo Delbono accompagnato dalla cantante Petra Magoni, e del giovane regista Andrea Baracco.
Nonché da quella dello stesso Nekrosius, che ha aperto il ciclo di spettacoli con la prima mondiale del suo “Il libro di Giobbe”.
E arriviamo così a Eimuntas Nekrosius. Un uomo silenzioso, laconico, schivo ed educato. Che in pubblico non sorride o lo fa raramente, a seconda di come butta la giornata. Dallo sguardo severo, arcuato, artico.
Si dice non ami le conferenze stampa. Confermiamo.
Si dice non ami le interviste. Confermiamo.
Si dice non ami parlare del suo lavoro. Confermiamo.
Si dice non ami parlare di sé. Confermiamo.
Ma cosa avremo mai da raccontarvi, allora, di questo nostro incontro con il Maestro?
Nekrosius è considerato un genio, autore di pagine memorabili del teatro europeo.
La curiosità sulla sua persona e il suo lavoro, la voglia di sapere qualcosa di altrettanto memorabile di lui, l’idea di portare a casa un dono eterno quanto l’Olimpico, e l’occasione di ridurre la distanza che a volte si avverte nell’essere spettatore dei suoi lavori, unite a un sano e innato masochismo, ci hanno portato a chiedergli comunque un’intervista.
Nonostante solo Dio – giusto per rimanere in tema con “Il libro di Giobbe” – possa sapere quanto faticosa sia stata, per chi scrive, questa breve chiacchierata, nel mondo di Nekrosius sembra che tutto avvenga in modo naturale, pacifico, lieve.
Le domande risultano così superflue, i problemi non esistono, e il suo essere all’occhio esterno impassibile, sempre e comunque, suggerisce uno sguardo responsabile ma leggero della vita e del teatro.
Possibile? Confermate da voi.
A teatro la drammaturgia classica vince quasi sempre sulla drammaturgia originale. Per quale motivo anche lei orienta le sue scelte in questa direzione?
Perché l’uomo non ha la capacità di guardare avanti, di vedere il futuro. In genere l’esistenza umana è un continuo guardarsi indietro, in ciò che è stato vissuto e raggiunto. Così succede nella letteratura come nel teatro. Si cerca di condividere questa esperienza con lo spettatore, perché il motivo futuristico non ha ancora le basi. La memoria umana è come un grande magazzino e resterà per sempre, in tutti i tempi, importante.
Dal “Cantico dei Cantici” alla “Divina commedia”, a “Il libro di Giobbe”, quali sono gli interrogativi o le suggestioni che la spingono a indagare il sacro?
Senza parlare a vanvera, avviene tutto in modo molto naturale. Se non fosse naturale non avrebbe senso. Nel quotidiano non mi metto a cercare qualcosa di originale, di interessante. Non mi piace questa parola. Interessante o non interessante è una semplificazione. Non cerco questo, non cerco nulla, lascio che avvenga.
Nella messa in scena de “Il libro di Giobbe” il bene e il male non entrano in conflitto ma piuttosto coesistono. Giobbe non fa una scelta, ma si pone al centro di una dialettica tra Dio e Satana; tutto passa attraverso l’uomo, e Giobbe è allo stesso tempo il legame tra le due forze superiori, e la loro alternativa umana. La vera scelta è quindi una non scelta?
L’osservazione è molto giusta; secondo me c’è l’armonia assoluta tra il male e il bene, non sono in conflitto ma coesistono. Dal punto di vista teorico è così, ma poi nella vita è tutto diverso, e forse una scelta è necessaria.
Il testo è di per sé molto difficile, ermetico. Come vi siete preparati per la messa in scena, e che tipo di lavoro ha chiesto di fare agli attori della Meno Fortas?
Questa è la nostra quotidianità professionale, e quindi non c’è stato niente di particolare. Il nostro lavoro si svolgeva in un’atmosfera pacifica. Nel nostro quotidiano eravamo sicuri, gli attori del gruppo sono tutte persone istruite e intelligenti, non abbiamo avuto grossi problemi.
Nel presentare “Il libro di Giobbe” ha parlato della necessità di lamentarsi. Un lamento che ci accompagna dalla nascita alla morte. Un lamento visto sotto un’ottica positiva.
In questo caso parlavo del lamento dell’essere, il lamento come consolazione, un essere deve avere la possibilità di consolarsi e di non accontentarsi.
Quale potrebbe essere, secondo lei, il lamento necessario del teatro, da sempre in uno stato di sofferenza?
In genere non amo lamentarmi, non amo chi si lamenta e nemmeno i teatri che si lamentano di continuo. Bisogna essere più orgogliosi, avere più orgoglio e non arrivare ai lamenti. È meglio stare zitti che lamentarsi.
La sua attività qui a Vicenza ha previsto anche sei giornate di workshop su “La vita di Galileo” di Brecht, la cui restituzione al pubblico è avvenuta nello scorso fine settimana. Quali sono le caratteristiche che ha privilegiato nella scelta degli attori?
Li ho scelti sulla base dei personaggi descritti dall’autore. Sono solo pochi giorni, ed è un tentativo di lavoro. Ad ogni modo cerchiamo di arrivare a dare qualche schizzo, evidenziare la tendenza principale dell’opera.
Oltre all’Olimpico, c’è un’altra quinta “naturale”, particolarmente speciale, in cui le piacerebbe portare un suo spettacolo, o vedere trasformare in un teatro anche solo per il tempo di un suo spettacolo?
Ognuno di noi ha un piccolo sogno, ma i sogni non si posso aprire a nessuno.
Per Eugenio Barba il teatro è un’esigenza personale, Pippo Delbono (ospite dell’Olimpico a fine ottobre), qualche giorno fa riprendeva una frase di Artaud: “Il teatro è un gesto di libertà”. Per lei invece cos’è il teatro?
Una forma di esistenza.
Qualche anno fa in un’intervista lei dichiarò: “Non dobbiamo pensare che il teatro occupi un posto importante tra le varie arti: ha un ruolo piccolo, ridotto, quasi senza importanza, forse troppo modesto”. Secondo lei si può fare qualcosa perché il teatro non sia più così marginale e acquisisca uno spazio e un riconoscimento maggiore nella società?
Tutto si svolge in modo molto naturale, organico;si possono avere dei desideri, ma non si può cambiare molto. Bisogna accettare le cose come vanno; in questo momento le cose stanno così e bisogna dire grazie a Dio che stanno così.
Cosa pensa della critica teatrale? La ritiene ancora utile?
Sì. Anche i critici teatrali sono essere umani. Come la gente di teatro hanno momenti di successo e insuccesso. E anche i critici sono dei creatori: scrivono, pensano, cercano di far capire; non è un lavoro facile se lo fai con sincerità.
Durante una prima mondiale, come nel caso de “Il libro di Giobbe”, che emozione prova dietro le quinte?
Capisco solamente che non posso fare più nulla, succeda quello che succeda; ho fiducia nei miei attori, e in ogni caso: il teatro resta solo il teatro e niente di più.