Le “Eclissi” di Michela Lucenti in dialogo con il mondo “Nomad” di Sidi Larbi Cherkaoui

Eclissi (ph: Monia Pavoni)
Eclissi (ph: Monia Pavoni)

Al 44° Festival Oriente Occidente di Rovereto lo smarrimento, il dolore e la speranza

Restituire l’esperienza di un festival, le scelte di programmazione, la qualità dell’interazione con lo spazio pubblico e con il discorso culturale è opera critica come quella di raccontare un lavoro che vi si presenta, ma richiede, in più, il tempo lungo della pratica dei luoghi. C’è bisogno infatti di insinuarsi tra le diverse linee di attività, laboratori, incontri, sezioni della rassegna, di parlare con le persone e farsi casa degli ambienti.

La rapidità della visita a Oriente Occidente, dovuta a eventi esterni che nulla hanno a che fare col desiderio a vedere e lasciarsi vedere, proprio nei due giorni di chiusura della manifestazione, non ci ha consentito quest’agio: abbiamo sfiorato uno dei talk previsti, mancato le aperture agli spazi cittadini, se non quella inserita nelle sale del Mart, trovato frammentati discorsi più ampi, pensati per darsi in più giorni. Ma soprattutto non è stato possibile accordare il nostro respiro a quello del festival, costruire quella mappa di luoghi e di posture ricettive che si fanno metabolismo, bioritmo.
Abbiamo perciò in mano solo le carte per descrivere una porzione di quella mappa, un isolato o due: un lavoro alla sua anteprima e un’importante produzione internazionale. Eccoli.
Di altri esperimenti vi diremo nei prossimi giorni.

Cominciamo dal lavoro di Michela Lucenti, “Eclissi”, co-prodotto da Oriente Occidente, che si presenta e probabilmente si presenterà accompagnato da due progetti di comunità, “Del perdersi. Eclissi performance #1” e “Del ritrovarsi. Eclissi performance #2”, in spazi cittadini. La sua colonna vertebrale, il lavoro di palco, è frutto anch’esso di un incontro didattico, in questo caso un corso di alta formazione con giovani danzatori e danzatrici.

Il tema, vista la giovane età dei partecipanti, non poteva che ricadere sugli “under 35”, come recita il programma di sala, promuovendo a categoria esistenziale un comprensibilmente sentito confine anagrafico-professionale.
Gravita a centro palco un enorme cerchio bianco bordato di luce, probabile allusione (anche) alla corona luminosa che emerge dall’ombra lunare sul sole, ma più negazione, sottrazione di materia che sua presenza ordinata in oggetto o in significante.

Sulla sinistra sta il carismatico Thybaud Monterisi dei Mount Baud, dalla bella voce baritonale, dietro alla consolle per il disegno sonoro live, che prevedrà anche suoi interventi cantati, a centro palco, e frammenti parlati, composti all’interno di una ammaliante prosodia. I danzatori si incontrano in pezzi d’assieme e si disperdono attorno al totem lunare, ora agito, ora ignorato, ora movimentato e infine aggredito, si svolge la serata dei cinque giovani. Chi non ricorda il contesto? Ballo, abuso ebbro e disperato, illusione di un oltre, di uno stato di godimento del presente; poi discesa vertiginosa, paura, solitudine. “Sembrava ci fossimo radunati tutti in cima alle colline a pregare per il mondo nel suo ultimo giorno” scrive Anne Dillard nel racconto che ispira il lavoro di Lucenti, inserito nella raccolta “Ogni giorno è un Dio”.

C’è un momento, dall’estasi al dolore, di sospensione e smarrimento (lo ricordate? lo ricordiamo) in cui non si sta ancora cadendo, si brancola in un bianco, sordo vuoto, alla cui luce innaturale le cose esistono per la prima volta, e in modo sconvolgente: “Il sole se ne stava andando, e il mondo era sbagliato”, scrive Dillard. È allora che la danza di gruppo cede il suo spazio agli assoli o ai monologhi (notevoli quelli interpretati, con un’estetizzazione della LIS da Carla Vukmirovic, che inaugura il lavoro, e da altri).
In quei brevissimi momenti (un’eclissi totale di sole non dura più di due minuti nella sua fase di completo oscuramento) i danzatori di Lucenti sono metaforicamente nudi, straziati, non solo dunque danzano, come il personaggio di Giovanni Fasser, il corpo strumento impazzito, percorso da una corrente irresistibile che lo rende avversario alla volontà, pericoloso, obbligato compagno di viaggio, ma in battute straziate, implorano aiuto, chiedono di non essere abbandonati, come il commovente appello (Leonardo Castellani) a non esser lasciati soli. “Eclissi” è di fatto, anche se in termini diversi dal racconto da cui trae origine, uno spettacolo sul risveglio: non sull’essersi risvegliati, proprio su quel limite che coincide dolorosamente con la percezione della luce, con quella corona bruciante che ci mostra a noi stessi in modo inedito.

Ma cosa mette in pericolo questa installazione comunicativa, questa costruzione scenica? Forse una sola cosa, a parte alcune balbuzie di scrittura, ampiamente prevedibili in un’anteprima per di più rivoluzionata dall’improvvisa assenza di uno dei performer: Confident Frank, infortunatosi poche ore prima della prima, è presente sul palco, con tanto di stampelle, ma solo per prendere, claudicante e mortificato, gli applausi del finale.
La presenza di una tesi, quella di una generazione “schiacciata dai propri demoni”, che dà l’impressione di una parziale sovrapposizione di visione sulla realtà, una sovrapposizione dell’autrice che, poi, nella cruda materia scenica, si traduce in un reiterato grido, privo di quella declinazione in contenuti, di quella materia tangibile e oggettiva, di quella individuazione in ferite specifiche, che avrebbe reso più coinvolgente il lavoro. È curioso perché l’attenzione alle singolarità non è un elemento trascurato, in “Eclissi”, ne è dimostrazione la personalizzazione dei gesti e dei movimenti che, anche negli assiemi, ogni corpo in scena si dimostra libero di esprimere, calandolo, si può dire, sulla propria storia di danzatore.
Il rischio è quello di una stilizzazione della realtà (anche del dolore) nata dall’empatia di un’autrice “civile” come Lucenti.

Nomad (ph: Monia Pavoni)
Nomad (ph: Monia Pavoni)

Nuovamente attaccato a qualcosa che somiglia a una tesi è “Nomad” di Sidi Larbi Cherkaoui, che doppia la propria presenza del 2019, quando fu a Trento con “Sutra”. Ma in questo caso è una tesi, pure nata dall’empatia, di immaginario, figurativa, una generica visione/veduta del mondo, più che il risultato di un’analisi sociologica o politica puntuale. Il suo lavoro infatti è una godibile rassegna, in forma di scene tra loro connesse, di diverse situazioni di migrazione e di adattamento alle condizioni più ostili della terra, ciascuna individuata dal mutare della proiezione sullo sfondo: ora un deserto riarso o frustato dalla pioggia, ora una impervia cima innevata, ora un mare scuro, agitato, terrorizzante.

Se il lavoro di Lucenti era un film dell’ultimo Bertolucci, questo lavoro ricorda un documentario della National Geographic, con i suoi campi amplissimi sopra le pianure sterminate, gli uomini azzurri velati, le grandi fughe di mandrie punte dalla sete. Sopra il suono di musiche dai diversi caratteri etnici, mediorientali, africani, dell’estremo oriente, e attraverso l’alternanza tra scene di massa, dieci performer più il vocalist Kaspi N’dia alle musiche dal vivo, Cherkaoui immagina e restituisce con strumenti mimetici la didascalia del difficile percorso degli uomini in una tormenta di neve (come non pensare a Piergiorgio Milano, anch’egli in scena a Rovereto nei giorni precedenti?), l’attraversamento di un deserto in groppa ai cammelli, agiti da tre danzatori con doppi trampoli, alle mani e ai piedi, insidiati da sciamanti scorpioni che slanciano l’aculeo che hanno in coda, l’innalzamento di un santone orientale, che diviene un dio gigante. I nomadi emergono solitamente dal fondo, come se il paesaggio stesso li partorisse, ma poi da esso si staccano, performano la propria storia sul palco che, nonostante la mobilità delle proiezioni e le complesse luci di Willy Cessa e Sam Mary, da quel paesaggio talvolta risulta scontornato.

Il mosaico di esperienze si conclude con il fango, la terra con la quale i danzatori si cospargono per l’ultima impresa, l’attraversamento dell’elemento terragno che ci accomuna tutti, e con un lirico, intenso passo a due tra un corpo bianco e uno nero, che si versano instancabilmente l’uno nelle braccia, in collo, ai piedi dell’altro, dopo aver assistito inermi all’innalzarsi di un fungo atomico sul fondale, unico ambiente inavvicinabile per il genere umano: si spegne in un moto di speranza, come diceva qualcuno, “contra spem”.

Eclissi
Coreografia e regia Michela Lucenti
Drammaturgia Maurizio Camilli, Emanuela Serra
In scena Fabio Bergaglio, Leonardo Castellani, Giovanni Fasser, Confident Frank, Michele Hu, Thybaud Monterisi, Carla Vukmirovic
Disegno luci Stefano Mazzanti
Musiche originali e disegno sonoro dal vivo Thybaud Monterisi
Costumi Chiara Defant
Assistenza alla coreografia Alessandro Pallecchi
Assistenza alla messa in scena Giulia Spattini
Realizzazione scene Laboratorio scenografico ERT / Teatro Nazionale
Responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Balletto Civile, Oriente Occidente
Con il sostegno di SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione – Progetto Habitat
Si ringrazia il Centro Servizi Culturali Santa Chiara

Durata: 1h 10′
Applausi del pubblico: 3′ 30”

 

 

Nomad
Coreografia e regia Sidi Larbi Cherkaoui
Interpreti Mabrouk Gouicem, Mohamed Toukabri, Pol Van den Broek, Kazutomi ‘Tsuki’ Kozuki, Shawn Fitzgerald Ahern, Maryna Kushchova (Ashotivna), Oliver Tida Tida, Jonas Vandekerckhove, Jonas Garrido Verwerft, Astrid Sweeney
Composizione musicale Sidi Larbi Cherkaoui, Felix Buxton, Kaspy N’dia
Musiche aggiuntive Yarkin Türk Ritm Grubu, Gökhan Filizman, Ahmet Şahin, Mehmet Kemiksiz, Macadi Nahhas, Al Qantarah, Oli Savill (Percussion), Mohammed El Arabi-Serghini, musiche tradizionali delle isole Amami in Giappone
Sound design Felix Buxton
Musica dal vivo Shak Shakito
Costumi Jan-Jan Van Essche
Scenografia Willy Cessa, Adam Carrée
Light design Willy Cessa, Sam Mary
Video design Paul Van Caudenberg
Assistente alla coreografia Shawn Fitzgerald Ahern, Oscar Ramos
Direzione delle prove Shawn Fitzgerald Ahern
Consulente artistico e socio Václav Kuneš
Vocal coach Anna Sato
Music engineered by Duncan F. Brown
Implementation set Martin Baarda
Tecnici Elric Reinartz (suono e palco), Geoffrey Oelbrandt (Artfex) (luci), Simon Foubert (Artfex) (video), Amber Van Rooijen (assistente di scena)
Guardaroba Saar Swinters
Logistica Nils Geernaert
Produzione artistica / tour manager Alessandra Oliveira
Prodotto da Eastman
Co-commissionato da 420PEOPLE, Cultuurcentrum Berchem
Grazie a Francesca Maria Amante, Sabine Groenendijk, Vojtěch Rak, Antonin Rioche, Filip Staněk, Nicola Leahey, Jason Kittelberger, Satyagraha dancers of Eastman/Theater Basel, Karthika Naïr, Carly Heathcote
Con il sostegno della Fondazione BNP Paribas, del governo fiammingo e del programma Tax Shelter del governo federale belga

Durata 1h 05′
Applausi del pubblico: 4′

 

 

Visti a Rovereto, Oriente Occidente, il 6 e 7 settembre 2024

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