“Un tram chiamato desiderio”, “Fronte del porto” oppure “La valle dell’Eden”. Sono titoli che nessun cinefilo ignora. Sono pietre miliari di Hollywood, cult movie legati ad attori da Oscar come Marlon Brando, oppure a miti belli e maledetti come James Dean.
A Elia Kazan (1909-2003), direttore di quei film, regista teatrale anche di drammaturghi come Arthur Miller e Tennessee Williams, è dedicato lo spettacolo “Elia Kazan. Confessione americana”, testo di Matteo Luoni, regia di Pablo Solari, giunto al Teatro Fontana di Milano dopo il debutto alla Biennale di Venezia del 2020.
Finalista al Premio Hystrio–Scritture di Scena 2021, il lavoro prodotto dal Centro Teatrale MaMiMò, vede in scena Woody Neri, Valeria Perdonò, Luca Mammoli, Irene Maiorino e Carlo Amleto Giammusso.
Un artista dev’essere valutato solo per le opere o va giudicato anche per la sua vita? È lecito distinguere tra l’importanza di un’opera e la moralità di chi l’ha realizzata? E soprattutto, quali scelte qualificano una vita come moralmente giusta o riprovevole?
Sono tante le domande che scaturiscono da questo lavoro. Che senza emettere giudizi, ha il merito di agitare – attraverso la vita di Kazan – anche le nostre coscienze da salotto.
“Elia Kazan. Confessione americana” è più di una biografia. È la storia di un artista nato nel 1909 a Costantinopoli e morto nel 2003 a Manhattan, ma anche della sua famiglia di origini greche e armene emigrata negli Stati Uniti nel 1913. Attraversiamo quell’America. Ne viviamo momenti cruciali come la Grande Depressione e il Maccartismo. Ne scoperchiamo il lato razzista, omofobo, capitalista, antisocialista. Eppure le riconosciamo la capacità di rappresentare un immaginario, intercettando i sogni di emancipazione, successo e fama dei paria che vi arrivavano da tutto il pianeta.
La pièce si addentra nella vita e nei ricordi di Kazan, nell’impotenza di una famiglia sradicata, nelle delusioni e nei sogni di un talento che faticò a manifestarsi, nei tonfi e nelle ripartenze di un uomo. Ma questo di Luoni e Scolari è soprattutto un lavoro sul teatro, sulla recitazione, sul mestiere e la fatica dell’attore, sui rischi e sui compromessi, sulle ragioni profonde che stanno alla base del fare arte.
Disseminati come tessere di un mosaico, ci sono gli strumenti del regista, la sua azione affinché gli attori rimuovano gli ostacoli a un’espressività emotiva fluente. Kazan riusciva come pochi a liberare la memoria affettiva dell’attore, a ricondurlo direttamente all’emozione, a riprodurre attraverso i ricordi le circostanze di un vissuto da mettere in scena, restituendo atmosfere e sentimenti.
È costante il riferimento agli anni d’oro di Broadway e Hollywood, ad attori, registi e produttori del calibro di Williams, Robert Lewis, Clifford Odets, Lee Strasberg, Barbara Logan, Marilyn Monroe, Darryl Francis Zanuck, con la 20th Century Fox sullo sfondo.
E poi ci sono i mille paradossi nella vita e nell’opera di Kazan. Che nel 1952, in pieno Maccartismo, denunciò colleghi e amici collaborando all’epurazione anticomunista nel mondo della cultura americana. Una pagina torbida, che tuttavia non gli ha negato l’empireo dei grandi del cinema di tutti i tempi.
Un’ambientazione da interno. Un sipario che attraversa in largo la scena. Un lungo tavolo che diventa ora soggiorno, ora ufficio per i provini, ora “tribunale” della Commissione McCarthy. Una piccola statua della libertà, rappresentazione dell’America e di quella Ellis Island così ostile agli immigrati, simbolo di quell’indipendenza di pensiero che a volte si è disposti a barattare pur di continuare a creare.
L’America. La libertà come labirinto in cui ci si perde. Una pianola, da cui parte un jingle da film che fa da filo conduttore all’intero canovaccio, e soprattutto ricrea l’unisono tra due protagonisti, quando Giammusso e Neri, in un esilarante momento scenico, si fronteggiano pigiando insieme la stessa tastiera.
Il cinismo e il compromesso. La resa e la crisi di coscienza. Il peccato. L’infelicità da esorcizzare con altri peccati, oppure riscattandosi attraverso l’arte. Il fuoco sacro della creazione, oppure la creazione come feticcio cui prostituirsi. La voglia di restare fedeli alla propria ispirazione. Momenti di poesia e d’ilarità. Sogni e incubi. La finzione e la verità.
In “Elia Kazan. Confessione americana” il testo esuberante, la regia vivace, i bravissimi attori, esprimono le mille ambiguità di un uomo e di un’epoca. Maiuscola la prova a tutto tondo di Woody Neri nella parte del protagonista, sostenuto da una Valeria Perdonò poliedrica nel ruolo della moglie Molly. Assai convincenti anche Mammoli, Giammusso e Irene Maiorino, che in sordina entra in scena e in temperatura.
«L’incubo è il prezzo da pagare per i fabbricanti di sogni». Il testo va oltre la cronaca, sviscera i tormenti dell’uomo e dell’artista. Luci, ombre, pensieri nascosti, colpe e pentimenti, silenzi e frustrazioni, sono resi da una regia cinematografica in cui abbondano flashback e anticipazioni, montaggi in parallelo, ellissi, fermi fotografici, soggettive per esprimere ricordi.
Se alle regie cinematografiche di Kazan si rimproverava di essere troppo teatrali, questo lavoro segue il procedimento opposto e abbonda di espedienti da grande schermo. Nel fumo delle sigarette e dell’alcol, tra rivalità e sotterfugi, tra idealismi, tradimenti e perdono, emerge un senso di humour surreale dalle implicazioni freudiane. Con il conflitto tra Io (la percezione cosciente di sé), Es (l’inconscio) e Super-io (il censore che fa da filtro tra l’inconscio e l’io cosciente) che arricchisce di ulteriori gradazioni il testo.
ELIA KAZAN. CONFESSIONE AMERICANA
di Matteo Luoni
liberamente ispirato alla vita di Elia Kazan
con Woody Neri, Valeria Perdonò, Luca Mammoli, Irene Maiorino, Carlo Amleto Giammusso
scene e costumi Maddalena Oriani
disegno luci Fabio Bozzetta
design sonoro Alessandro Levrero
regia Pablo Solari
produzione Centro Teatrale MaMiMò
Testo finalista alla decima edizione di “Premio Hystrio–Scritture di Scena2021”
Spettacolo presentato al 48° Festival Internazionale del Teatro-Biennale di Venezia
Durata: 1h 30’
Applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Fontana, il 5 novembre 2021