A pelle scoperta. Elisa Pol tra forza e fragilità

Elisa Pol
Elisa Pol

Da molto tempo viene sottolineata la situazione drammatica, per non dire imbarazzante, in cui annaspa il teatro italiano. Molte realtà sono in piena crisi, alle prese con tagli, sparizioni, stati di ibernazione, stagioni che scompaiono, spazi teatrali trasmutati in sale di yoga o tango, cartelloni inesistenti ed altri che d’improvviso si mettono ad ospitare nomi che fino a qualche anno prima sarebbero stati considerati “inaccettabili” al solo nominarli.
La Toscana non fa eccezione, pur con i dovuti distinguo. Il discorso non sembra infatti valere per Prato. Qui le cose continuano ad andare avanti e il cartellone della stagione si annuncia molto interessante.

Il festival Contemporanea, in questa edizione numero quattordici che ha chiuso i battenti a inizio ottobre, ha evidenziato ancora una volta – come enunciato nella presentazione dal direttore Edoardo Donatini – la sua voglia di essere “oggetto di indagine orizzontale sul mondo”, offrendo agli spettatori un programma importante, arricchito da incontri, laboratori ed una micro rassegna per ragazzi. Da segnalare anche la sezione inedita dedicata alla drammaturgia italiana, caratterizzata da una serie di eventi unici (tutti prodotti dal Metastasio di Prato) di alcuni “tra i più significativi artisti del panorama nazionale”: Claudio Morganti, Roberto Latini, Licia Lanera, Tindaro Granata, Ilaria Drago, il duo Astorri/Tintinelli ed Elisa Pol.

Abbiamo assistito all’ultimo dei quattro appuntamenti con Morganti, protagonista a Contemporanea di altrettante conferenze brevi tra musica e lettura, che hanno accolto in ogni incontro un ospite diverso: Massimiliano Civica – che all’interno di Contemporanea ha tenuto anche il laboratorio “Parole di legno. Il mestiere di dire i versi” -, Piergiorgio Giacché, Enrico Piergiacomi e Attilio Scarpellini.
Tra estratti audio del Banco del Mutuo Soccorso, spezzoni video (tra cui il famosissimo arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei Lumière – ma qui nessuno, per la cronaca, è fuggito dalla sala, come accadde invece più di un secolo fa), Morganti, in un clima rilassato e piacevole, ha condiviso col pubblico le sue riflessioni attorno al concetto e alla figura (o alle diverse figure) di spettatore, accompagnato dal prezioso intervento di Attilio Scarpellini.

La serata è proseguita con lo studio di Elisa Pol, “Space²”, ispirato all’omonima serie di immagini della fotografa statunitense Francesca Woodman, scomparsa suicida a soli ventidue anni.
La protagonista ha presentato tre piccoli estratti da Sarah Kane, Lucia Calamaro e Sylvia Plath. Abbiamo così colto l’occasione per scambiare due chiacchiere con Elisa Pol per conoscere meglio questa giovane attrice veneta.

Partiamo da questo studio. Cosa lega Francesca Woodmann a Sarah Kane, Lucia Calamaro e Silvia Plath?
Lo studio nasce da un input di Edoardo Donatini per l’edizione di Contemporanea 2016. Per me è stata l’occasione di mettere a fuoco alcune questioni che hanno segnato questi dieci anni di vita e lavoro con Nerval Teatro. Intendo il rapporto con la scena e il pubblico, ricercato dentro un ordine di vicinanza e di sensibilità, e l’attenzione rispetto ad alcune drammaturgie che affrontano il tema del disagio nelle sue più diverse declinazioni. Con questo studio ho voluto comporre una dedica a Francesca Woodman, perché è un’artista su cui vorrei lavorare nei prossimi anni. Il filo che lega tutte è quel paradossale connubio di grande forza e fragilità (Francesca, Sarah e Sylvia sono tutte morte suicide in giovane età) che a volte diventa una vertigine che penetra fino all’esistenza biografica. Forse, mi dico, l’arte bisogna farla proprio in questa maniera, bisogna avere la pelle scoperta e insieme una grande forza.

Dicci qualcosa in più sul testo di Lucia Calamaro, “Perché non dici mai niente, MONOLOGO”, di cui sei attualmente protagonista.
È un lavoro ancora in progress, a breve infatti riprenderemo le prove al teatro Il Moderno di Agliana. Affronta il tema della solitudine. La protagonista è Mary, una donna abbandonata dal marito, la cui mente cade a pezzi, forse affetta da Alzhaimer o forse è solo una povera donna che delira schiacciata dall’isolamento… Per questo parlare diventa l’unico appiglio alla vita. E credo sia importante, nello spettacolo, mantenere questa doppia lettura.

Cosa pensi della drammaturgia di Lucia Calamaro?
Amo molto il lavoro di Lucia, perché sa creare personaggi femminili originalissimi; la sua scrittura è sorgiva, portatrice di una teatralità intrinseca fatta di abbandono e lucidità, di pensiero e controtempi ironici… è quasi un vestito attorale. In questo sta anche il rischio di affrontarla.

Non senti un po’ il peso, la responsabilità, di confrontarti con una drammaturgia “importante”?
Andare in scena è sempre una grossa responsabilità, qualsiasi cosa si decida di affrontare. Forse l’unica differenza concreta sta nel fatto che Lucia è drammaturga e regista dei suoi testi. Questa è la prima volta che una compagnia mette in scena autonomamente un suo testo.

Parlaci brevemente del tuo percorso.
Faccio fatica a parlarne con chiarezza, richiede una razionalità che in questo momento non riesco ad avere. Si tratta di un percorso fuori dai sentieri tracciati. Questo penso abbia condizionato molto le mie scelte. Come l’incontro con Maurizio Lupinelli e la scelta di fondare la compagnia insieme, l’intimità con autori che hanno affrontato senza mezzi termini il disagio esistenziale, la malattia, l’esclusione.

E l’incontro con Raffaella Giordano come è avvenuto?
Ad un certo punto del mio percorso ho sentito la necessità di avvicinarmi al mondo della danza. Ho incontrato Raffaella in uno dei suoi seminari, e ho capito che dovevo seguirla. C’era e c’è qualcosa, nell’insegnamento e nella figura di Raffaella, che sento vicino al mio modo d’essere e di pensare la mia professione. Ho partecipato al biennio “Scritture per la danza contemporanea”, un’esperienza rivoluzionaria perché per un attore togliere le parole e mettersi dentro le ragioni del corpo è una rivoluzione totale.
Da questa esperienza è nato il collettivo Agostino Bontà. Con ex-colleghi del biennio all’inizio abbiamo deciso di operare fuori dagli spazi deputati alla scena, in strada, in appartamenti privati… Ora siamo alle prese con la nostra opera prima. Penso sia importante, partendo da un centro di forza e di identità, ricercare in ambiti lontani da sé: credo molto in questo.

Sei un’attrice giovane. Cosa ti aspetti dai prossimi anni?
Spero di riuscire a tenere aperto il dialogo con me stessa rispetto ai valori in cui credo, e di trovare persone curiose disposte a sostenere questo dialogo.

Come vedi dall’interno questa fase che sta attraversando il teatro contemporaneo? Cosa è veramente cambiato nei cartelloni e nel pubblico?
È un discorso complesso che non mi sento di affrontare. Ma alcuni effetti immediati sono sotto gli occhi di tutti. Il teatro indipendente viene relegato ad una marginalità forzata, l’accesso ai finanziamenti si riduce, le possibilità di programmazione sono quasi inesistenti. O sei dentro o sei fuori, e fuori soffia un vento che spazza via! Quello che sconvolge è che si sono trovati fuori anche artisti e compagnie con percorsi validi, importanti.

Tornando a Contemporanea, cosa hai visto di interessante?
Ho seguito poco il festival perché in quei giorni stavamo lavorando. Ma sono riuscita a vedere Astorri/Tintinelli, Roberto Latini e Claudio Morganti, tutti artisti che, pur nella loro diversità, stimo molto.

Non si fa altro che parlare di crisi di pubblico. Tu come la vedi?
Siamo in Italia. L’ignoranza e il disinteresse per il teatro sono forti. Di pari passo, il sostegno alla cultura diminuisce.

Eppure ultimamente si parla molto di come attrarre nuovi spettatori e, parallelamente, del ruolo della critica. Tu che posizione hai?
Lo spettatore è parte fondamentale dell’accadimento teatrale, senza questo confronto non c’è teatro. Un teatrante, anche quando prova, è in una tensione continua volta a quell’incontro. Lo spettatore assiste, è un moltiplicatore di energia. La critica dovrebbe fornire ulteriori strumenti di analisi allo spettatore e aiutare a contestualizzare un’opera, un autore. Peter Brook diceva che il critico rende sempre un importante servizio al teatro quando va a snidare l’incompetenza, chi attraversa il teatro in modo irresponsabile.

Quali sono i lavori che più ti hanno colpito tra quelli visti nell’ultimo anno?
Due, entrambi stranieri, mi hanno particolarmente colpito: “Natten” di Marten Spangberg e “Five easy pieces” di Milo Rau.

Un’ultima domanda. Alla Marzullo. Consigliaci anche due libri e due film.
Per quanto riguarda i libri consiglio “Il teatro come differenza” di Antonio Attisani (titolo felice che risuona oltre il libro), con la bellissima lettera-prefazione di Leo de Berardinis. Un libro che tengo sempre vicino e a cui torno in continuazione. Ci sono pensieri sul teatro di calda e rara lucidità.
Il secondo invece è un libro che sto leggendo in questo momento, “Domani nella battaglia pensa a me” di Javier Marías. Non l’ho ancora finito, ma lo consiglio perché ha una trama bellissima.
Invece per quanto riguarda i film consiglio “Still life”, una riflessione delicatissima sulla pietas umana, e uno che ho visto recentemente, “Lo chiamavano Jeeg Robot”: è un film italiano sorprendente [diretto da Gabriele Mainetti e scritto da Nicola Guaglianone e Menotti, con Claudio Santamaria, ndr], al di fuori da quella dicotomia film d’autore / commedia commerciale a cui siamo così abituati.

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