Per il neo-curatore del festival, prodotto da Fondazione Musica per Roma, i programmatori artistici sono nel mezzo di una nuova sfida culturale
Siamo stati due anni senza Equilibrio, il festival di danza contemporanea di Roma prodotto dalla Fondazione Musica per Roma. Finalmente a febbraio, all’Auditorium Parco della Musica, è tornata protagonista la grande danza nazionale e internazionale.
Ne ho parlato con il nuovo curatore Emanuele Masi, attuale direttore artistico di Bolzano Danza e da anni occhio attento sulla scena contemporanea, che ha raccolto l’eredità degli importanti nomi che lo hanno preceduto, ossia Sidi Larbi Cherkaoui, Anna Cremonini, Roger Salas.
Emanuele, che bello trovarti a Roma! Com’è stata l’esperienza nella Città Eterna lavorando per una delle sue istituzioni culturali più importanti?
È stato molto emozionante avere l’occasione di confrontarmi – da programmatore – con il pubblico e le istituzioni della capitale: ho trovato un tessuto culturale ben interconnesso. Ma soprattutto fin dal primo momento, sia che parlassi con giornalisti e addetti ai lavori sia con ‘normali’ spettatori, sentivo palpabili un’attesa e un affetto straordinari verso il Festival Equilibrio: sentimenti che hanno reso quasi catartico l’applauso che ha accolto lo spettacolo inaugurale.
Vedendo il programma, noto il ritorno di coreografe e coreografi nostrani: Silvia Gribaudi, Cristiana Morganti (che purtroppo ha dovuto rimandare il debutto romano del suo ultimo spettacolo causa Covid), Marco D’Agostin, Alessandro Sciarroni, Francesca Pennini. In un festival che è stato negli anni anche “troppo” internazionale, puoi raccontarci il motivo di questa scelta?
In realtà anche i nomi nostrani possono essere assolutamente internazionali. Penso per esempio allo spettacolo “R.osa”: due giorni dopo Roma, era in debutto a Parigi all’interno di un focus che Théatre de la Ville ha dedicato a Silvia Gribaudi. Roma-Parigi andata e ritorno, più internazionale di così! La stessa Francesca Pennini ha partecipato all’allestimento di una partitura musicale che vedeva a Equilibrio la sua prima europea, e vorrei anche menzionare la MM Contemporary Dance Company, che ha inserito nel proprio repertorio un cammeo come “Duo d’Eden” di Maguy Marin. Nomi italiani per una programmazione incredibilmente internazionale.
Per quanto riguarda le proposte internazionali, il pubblico di Equilibrio ha potuto scoprire la poetica di due maestre come Anne Teresa Keersmaker (il cui “Rosas danst Rosas” è diventato un flashmob a cura dell’Accademia Nazionale di Danza) e Maguy Marin (presente con due pezzi: uno “storico”, l’altro più recente). A queste si sono unite le personalità artistiche più affermate della generazione successiva: da Sharon Eyal fino a Richard Siegel (quest’ultimo per la prima volta a Roma). Hai tenuto conto della componente generazionale costruendo il programma?
Ho voluto proprio mettere al centro del festival l’idea di coreografia, creando un confronto tra estetiche e generazioni, ma anche eredità: con Pina Bausch in filigrana tra l’anteprima di Papaioannou e la chiusura con Siegal (entrambi hanno creato per il Tanztheater Wuppertal), passando per Cristiana Morganti. Ho definito il programma pensandolo come un dono per il pubblico, senza quella corsa spasmodica per avere a tutti i costi l’ultimissima creazione o l’esclusiva nazionale che spesso ingabbia noi programmatori: ho preferito portare un affondo su alcune poetiche e descrivere il contemporaneo come un arco di quasi quarant’anni di creatività.
Di quale presenza sei stato più orgoglioso?
Sono state, ognuna a suo modo, tutte serate straordinarie. Ma quella che mi rende davvero orgoglioso è quella del Ballet of Difference (la compagnia di Richard Siegal): non tanto per le coreografie graffianti, ma per gli interpreti che le hanno eseguite. Con l’idea “of Difference” Richard Siegal ha composto un ensemble costituito da danzatori e danzatrici dalla capacità tecnica straordinaria e di grande virtuosismo (le punte, in primis!, ma anche la precisione, l’espressività, la velocità), ma dai corpi non omologati allo standard che ti aspetti da una compagnia di balletto: altezze differenti, forme affusolate e fisici più robusti, generi sottotraccia. Una vera lezione che avrebbero dovuto vedere tutti quei direttori di corpo di ballo che ancora credono che la bellezza risieda in un corpo esteticamente stereotipato. Il pubblico, che ha accolto la compagnia con ovazioni, ci ha dimostrato di essere più al passo con i tempi in un mondo che è fortunatamente cambiato.
In quanto padre, mi ha intrigato molto il progetto Notte a Teatro, un laboratorio durante il quale bambine e bambini dai 7 ai 10 anni hanno potuto dormire in Auditorium per poi vedere, la mattina, lo spettacolo “Joseph Kids” di Sciarroni. In pratica, un’attività da boyscout ma avendo a che fare con l’arte e la danza. Come ti è venuta l’idea e com’è andata?
In realtà è stata un’intuizione di ormai dieci anni fa: era il 2012, l’anno internazionale dedicato all’incontro tra generazioni, e da giovane padre ho avuto l’intuizione di “copiare”, adattandola, l’iniziativa delle notti al museo, e ho scoperto che nessuno ci aveva ancora mai pensato. Da allora ho replicato la Notte a Teatro più e più volte, con la danza ma anche con l’opera, e sono felice che altri teatri mi abbiano a loro volta copiato proponendola a Como, al Regio di Parma e al Massimo di Palermo, per citarne alcuni. Più che una spedizione da giovani marmotte, mi immagino un’esperienza alla Hänsel e Gretel: un percorso iniziatico per futuri spettatori adulti, padroni dei segreti del teatro più di mamma e papà.
Alle serate che ho frequentato, ho notato moltissimo pubblico eterogeneo. Inoltre alcuni spettacoli (tra cui l’attesissimo Dimitris Papaioannu in co-realizzazione con il Teatro di Roma) sono andati sold out molti giorni prima. Che idea ti sei fatto del pubblico metropolitano attuale? C’è davvero, nonostante le restrizioni, più voglia e più bisogno di arte e cultura, o è solo un fuoco di paglia?
Dopo due anni di assenza dalla scena romana, quella dell’affluenza del pubblico era un’incognita per Equilibrio, e un tale successo di pubblico era insperato: ma so che non tutte le iniziative stanno riscontrando un ritorno nelle sale, a Roma come nelle altre grandi città. Credo che molto dipenda dall’appeal della singola proposta: temo che il pubblico stia centellinando le serate fuori casa e quindi sia più portato a scegliere. Mi chiedo seriamente se nelle metropoli ci sarà la possibilità di tornare ai livelli di prima: se la paura dei contagi sta iniziando a scemare, l’ultima bolletta ci ha messo davanti all’evidenza di nuova recessione economica, cui si aggiunge una guerra alle porte di casa che – al pari della pandemia – nessuno di noi avrebbe nemmeno lontanamente potuto immaginare. Quali saranno i bisogni e le vere urgenze della società cui, come programmatori culturali, dovremo cercare di dare risposta?