Quando guardo l’orologio non so cosa aspettarmi. Potrebbe essere passata mezz’ora, ma anche tre ore: l’incantesimo sul tempo, questa vecchia qualità del teatro, quando ti capita davvero lascia due cose ben confitte nella testa. La prima è che basterà poco, purtroppo, per dimenticarsi quella sensazione sospesa e abbandonata. La seconda è che hai davanti un grande lavoro.
Bella scoperta, dirà qualcuno: sei andato a vedere Emma Dante. Sì, va bene. Però queste “Sorelle Macaluso” hanno pulizia formale, sintesi, nuda efficacia: le qualità di un’artista che non si è fatta affascinare dalla celebrità. E questo non è scontato: in scena non avviene niente più di quanto non sia strettamente necessario. Nessun orpello, nessun ammiccamento al proprio stile.
L’incipit dello spettacolo muove da Camus e dal suo “L’étranger”: «Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas» (Oggi mamma è morta. O forse era ieri, non lo so).
La condanna esistenzialistica del guardarsi vivere, il lubrico e continuo mancare dell’io a sé stesso, senza riuscirsi a collocare nel mondo. Ma anche qualcosa di più concreto e meno psicologistico.
“Le sorelle Macaluso”, infatti, nasce da un episodio reale, come racconta Emma Dante: «Tutto si ispira al piccolo racconto che mi fece una volta un amico. Sua nonna, nel delirio della malattia, una notte chiamò la figlia urlando. La figlia corse al suo letto e la madre le chiese: “In definitiva io sugnu viva o morta?”. La figlia rispose: “Viva! Sei viva mamma!”. E la madre beffarda rispose: “See viva! Avi ca sugnu morta e ‘un mi dicìti niente p’un fàrimi scantàri” (Sì, viva! Io sono morta da un pezzo e voi non me lo dite per non spaventarmi)».
All’inizio, in scena, c’è un lungo buio. E dal buio emerge ad un tratto, come in certe osservazioni astronomiche, la luce di un corpo che sembra nascere nell’esatto momento in cui ci arriva agli occhi la sua piroetta. Le posture scomposte e quelle eleganti s’intrecciano in frasi di danza che, già dopo poco, mostrano nell’affanno del ritmo la ferita di una coazione, come se fossero condannate ad essere la parodia di sé stesse: come se quel corpo di donna, in realtà, tutt’altro che appena nato, portasse sulle spalle il peso di un lungo passato, scontornato nel buio dello spazio, invisibile ma gravante dall’interno.
Alle traiettorie della prima sorella cominciano a intrecciarsi, per tagli perpendicolari, le mosse rigide degli altri attori, tutti vestiti a lutto: compongono in breve una torma che è militare e funebre al tempo stesso, innalzano un crocifisso e, muovendosi tra il boccascena e il fondo del palco, invertono la marcia sempre nel punto in cui un estremo lembo di luce segna il limite prima della scomparsa. È la metafora visiva che anticipa l’idea centrale della rappresentazione: le sorelle Macaluso si sono ritrovate per celebrare il funerale di una di loro, ignara però della sua stessa morte, e mentre rievocano i ricordi familiari durante la veglia funebre, sia per loro sia per il pubblico i margini tra il passato e il presente, e tra i vivi e i morti, si annullano.
C’è, al posto di questi margini, una compresenza rituale e dialogica, un tentativo di negare o scavalcare la morte delle persone care; ma anche di slogare il tempo e lo spazio fino a realizzare, con la lucidità paradossale della follia, un’immacolata prova di senso.
Sfaldatosi il corteo, alla maniera dei pupi siciliani gli attori in scena – oltre alle sette sorelle anche il padre, la madre e il figlio di una di loro – si scontrano con spade e scudi. Un omaggio della Dante, forse, al lavoro di un puparo molto amato: Mimmo Cuticchio.
Nasce, qui, una sensazione destinata ad emergere molte volte nel corso dello spettacolo: quella di un’eterodirezione, come se le anime in scena fossero destinate a rimanere marionette di un qualche imperscrutabile orrore – o piuttosto, come diremo, di un errore.
Deposte le armi, rimossi i vestiti neri e scoperchiati i costumi colorati, le Macaluso si schierano sul proscenio: esposte agli sguardi. Si lasciano attraversare da suoni disarticolati, fischi, grugniti, risate di pancia; entrano in relazione attraverso una mimica sbrigliata e grottesca, dando vita ad un vero e proprio manuale del carnevalesco.
Da questa catena asemantica emerge gradualmente il grammelot, che a sua volta si evolve nel ricorso – incostante e sempre inscindibile dall’azione concreta – al dialetto siciliano. La risata, però, rimane sempre una sorta di sottotesto, una falda acquifera in grado, anche quando non zampilla, d’innervare i momenti drammatici del loro contrario: quando si evoca l’affogamento di una delle sorelle (in una scena corale di straordinaria vitalità), la sequenza di gesti, pur tragica, è talmente in equilibrio su questa ingenua e silenziosa comicità che il pubblico stesso finisce per ritrovarsi, con un filo d’imbarazzo, sul bilico tra partecipazione emotiva e risata. C’è, insomma, un continuo scambio d’atmosfera emotiva tra il palco e la platea, a conferma della compiutezza di quest’opera.
Guardando «Le sorelle Macaluso», come già per i precedenti lavori della regista, è impossibile non pensare ai quadri corali della «Classe morta» di Kantor, o alla narratività dei corpi in Pina Bausch. Un nome che invece mi sembra citato molto più di rado – perché non teatrale, ma altrettanto utile a illuminare la poetica della Dante – è quello del poeta Paul Celan, la cui tragicità di vicende biografiche rese la convivenza tra vivi e morti una costante della sua esistenza. Ecco alcune strofe di “Insieme”, che sembra quasi scritta per questo spettacolo: «Poiché già la notte e l’ora, / che dà un nome sulle soglie / a chi entra e chi esce, / approvò quanto facemmo, // poiché nessuno, come terzo, c’indicò la via, / ecco che le ombre non verranno / separate, qualora ci attenda / più di quanto oggi s’annunciò».
La lingua della scena ci spreme, come spreme gli attori, nell’incompiutezza così significativa di questo mondo, in cui aldiqua e aldilà sembrano soltanto i due vertici di base di un triangolo, sormontati da una foscoliana «corrispondenza di amorosi sensi», che però è anche dura biologia, fibra muscolare, sforzo di un’intera specie sospesa tra la ricerca del senso e la semplice volontà di farsi forza a vicenda. Come ben scrive Sergio Lo Gatto nel foglio di sala, «la sua visione ingrossa i nervi, li allena, li ammaestra, li contrae ai dettami di una realtà altra: un attimo prima che le immagini si compiano del tutto, a tradurle in forma sono creature già passate di stato».
L’istinto e l’animalità sono fonte di energia, sono una forza da includere per non cristallizzare la vita e il corpo dell’attore; la parola è conseguenza, e non causa, della spinta somatica. Con questi contrappesi, Emma Dante può attingere ad un registro perfino melodrammatico, senza però mai scontarne il peso retorico, come se l’estremo slancio verso il basso della materia si rivoltasse in leggerezza, in un pathos ringiovanito e senza più rughe di banalità.
Se in “Cani di bancata” la sfera istintuale si presentava nelle tinte scure e negative del branco mafioso, stavolta il peso del corpo (lo stropicciarsi dei tendini facciali, il gesto elegante della danza o del palleggio di Maradona che con facilità si trasformano in convulsione) è la consistenza stessa del discorso poetico, è la regola del gioco, è l’unica pupilla in grado di accedere ad un racconto che, se non si mostrasse in questa forma ludica ed agonistica, si spegnerebbe.
I vivi e i morti sono uniti dalla stessa condizione: essere posseduti dai loro gesti. Alcuni di questi gesti, in particolare, diventano un modulo ripetitivo, una sequenza fissa che la Dante dispone ritmicamente: «sulla partitura», stavo per dire, ma in questo caso è davvero necessario scrollarsi di dosso le metafore musicali del teatralese; i gesti delle sorelle Macaluso, infatti, somigliano molto più a quelli che nella musica elettronica si chiamano “glitch“, errori di funzionamento, trasformabili per l’appunto in risorsa espressiva e ritmica.
Prendiamo la scena dell’abbraccio e dell’amore ultraterreno tra il padre e la madre delle sorelle Macaluso (la più bella dello spettacolo, probabilmente, assieme a quella dell’affogamento).
Questa scena è talmente vicina alla perfezione formale, da riuscire nell’obiettivo forse più difficile in assoluto per una qualsiasi opera d’arte, che per statuto non è mai ingenua: mostrare una fragilità senza maschere. Ci riesce grazie a tante minuziose trovate registiche (il padre che si spoglia e rivela d’indossare una vestaglia da donna, e viene preso in braccio per qualche secondo dalla moglie, fondendo così, oltre alle dimensioni di vita e morte, anche il maschile e il femminile), ma tra queste ce n’è una preziosissima: durante la loro danza, il marito fa vorticare la moglie in una piroetta, e mentre lei si muove, lui ne asseconda la rotazione spingendo con le mani sui suoi fianchi, come potrebbe fare un bambino imbranato con una trottola. E guarda caso è proprio questo gesto a diventare glitch, a ripetersi fino al finale, finché la coppia rimane in scena.
A volte (quando non diventa un mestiere, come in certo post-moderno) mostrare il trucco significa renderlo ingenuo: e senza l’equilibrio ottenuto con l’ostentazione di questa artificialità, forse la scena non avrebbe avuto gli applausi commossi del pubblico.
Nel finale, sul corpo della sorella che ha appena scoperto di essere morta, le caravaggesche luci di Cristian Zucaro ostentano, come in una tavola anatomica, le fasce muscolari al centro delle braccia e delle gambe: sembra siano loro a comandare, in una danza disperata, il corpo dall’interno, mentre la morta danzante prova affannosamente a coprire le nudità con il suo tutù bianco da bambina, che a fatica le raggiunge il bacino.
C’è, all’interno, una vita nostro malgrado, una vita senza obbedienza, soprattutto quando vuole abbandonarci: uno scheletro dell’anima, su cui l’anima può solo arrampicarsi.
Ma non è solo negatività. A questo disarmato esporsi, a questa fragilità senza parole, noi stasera abbiamo voluto bene. In questa vicinanza affettiva ad una fragilità che non mima nessun segreto e nessuno svelamento, ma solo il suo stare in piedi su cartilagini di cera, chi fa davvero silenzio può sentire, forse, il piccolissimo ronzio di una magnetica in azione: è da lì che nasce il teatro; da lì – ogni tanto – l’invisibile si fa senso e corpo.
Le Sorelle Macaluso
testo e regia: Emma Dante
con: Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier
luci: Cristian Zucaro
armature: Gaetano Lo Monaco Celano
foto: Carmine Maringola
produzione: Teatro Stabile di Napoli, Théâtre National (Bruxelles), Festival d’Avignon, Folkteatern (Göteborg)
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 5′
Visto a Roma, Teatro Palladium, il 6 febbraio 2013
Romaeuropa
Il resto della tournée:
Reggio Emilia, Teatro Ariosto, 11 – 12 febbraio 2014
Fano, Teatro della Fortuna 13 febbraio 2014
Palermo, Teatro Biondo 25 febbraio – 2 marzo 2014
Torino, Fonderie Teatrali Limone 29 aprile – 4 maggio 2014
Milano, Piccolo Teatro Grassi 6 – 18 maggio 2014
Romania, Sibiu International Theatre Festival 11 – 12 giugno 2014
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