L’esausto. Gleijeses + Varley + Deleuze x Beckett = Risultato vincente

L'esausto
L'esausto
Lorenzo Gleijeses ne ‘L’esausto’ (photo: Marco Ghidelli)

Una scatola. Un oggetto semplice e di facile classificazione, qualcosa che occorre per contenere qualcos’altro. Questo ci sembra il sottilissimo lavoro ideato da Lorenzo Gleijeses e Julia Varley: uno spazio che all’occorrenza si chiude, all’occorrenza si apre. Forma e colore sono indifferenti, la funzione resta la stessa.

Di raccontare la storia di questo ‘enfant prodige’ del nostro teatro si è occupato qualcun altro, mesi fa, su queste stesse pagine, aprendo uno spiraglio su una delle carriere più originali degli ultimi tempi. Da Napoli a Pontedera, passando per Russia, Inghilterra, Lituania e innumerevoli input tra teatro e danza. Un padre attore, quindi una grande eredità. Ma basta così: il resto è puro talento.

“L’esausto – o il profondo azzurro” debutta al Mercadante di Napoli nel maggio 2008, frutto di un felice sodalizio tra il giovanissimo attore napoletano (classe 1980) e una delle perle dell’Odin Teatret, l’attrice inglese Julia Varley. Al binomio, già autore de “Il figlio di Gertrude”, si aggiunge il contributo dell’attore-performer Manolo Muoio.

Se, dopo aver visto innumerevoli messinscene dei testi di Beckett, doveste per caso sentirvi quasi preparati, o anche solo appagati da ciò che avete visto e sentito, ci prenderemo la libertà di strattonarvi il braccio per condurvi a una replica de “L’esausto”. Non uno spettacolo “di” Beckett, in un certo senso “da” Beckett, ma innanzitutto uno spettacolo “per” Beckett. Un omaggio, e dei più fini.
Punto di partenza è il saggio omonimo di Gilles Deleuze sullo scrittore irlandese, un po’ difficile da rintracciare, ma che vale assolutamente la pena leggere, magari appena visto lo spettacolo, per capire cosa e in che modo i tre autori siano riusciti a mettere insieme, creando quello che sembra essere un contenitore di immagini e intuizioni. Una scatola, appunto.
Piccola digressione filosofica: se, parlando dell’agire, lo si identifica come uno sforzo teso a realizzare un possibile “in funzione di certi scopi, progetti e preferenze”, e se la condizione di stanchezza nega il successo a quello stimolo ad agire, Deleuze parla dello stato di esaurimento in questi termini: “Le variabili di una situazione si combinano a condizione di rinunciare a ogni tipo di preferenza, a qualsiasi organizzazione di obiettivi, a qualsiasi forma di significato”. Alle azioni viene allora sottratto completamente il senso, in termini proprio di direzione dell’intenzione. Lo spazio inaridisce pian piano come granturco mai colto, si pietrifica e lascia solo spigoli, ormai neppure più acuminati, nemmeno più pericolosi perché levigati dal tempo, dall’immobilità. Deleuze parla dello spazio di Beckett come di uno “spazio qualunque, disertato e deserto, pur essendo geometricamente determinato”.

All’interno di questo spazio si muovono, immanenti, Gleijeses e Muoio. Uno ombra dell’altro, uno causa persa dell’altro, uno scommessa mancata dell’altro, in un continuo scambiarsi i ruoli, come denti di una ruota che scalano all’infinito nello stesso ingranaggio. I loro movimenti sono piccoli voli, i loro dialoghi soffi di semantica. Esposti alle intemperie dell’esaurimento, i corpi fungono da cassa di risonanza, lasciano entrare la corrente, gonfiando le viscere di inutilità, gelandosi le vene con le ossessioni del dove, del perché, ma soprattutto del chi.
Non è semplice esistenzialismo, quello di Gleijeses, Varley e Muoio, ma pura consapevolezza, annullamento delle potenzialità del fare. Nei movimenti si intuisce il rigido lavoro della disciplina grotowskiana, che riesce a scomporre il corpo di Gleijeses come una bambola rotta; si gusta l’acrobatica di Muoio e, grazie anche allo straordinario spazio scenico di Paolo Calafiore, così asettico eppure vivo, astronave alla deriva in spazio vuoto, si è testimoni di una regia assolutamente presente. Varley gioca con la prossemica tra i due performer, avvicinando i corpi e le voci in onde di contrazione-rilasciamento che simulano il muscolo cardiaco.
E poi c’è il testo. L’unico elemento riconoscibile è una lotta estenuante tra due individualità che tentano di darsi senso a vicenda: nel continuo alternare creazione e annullamento l’uno dell’altro, i due si sondano a vicenda occhi, movenze e risposte, alla ricerca degli elementi necessari ad affermare un’esistenza. Finendo poi per divenire l’uno la nemesi dell’altro, sparando da pistole che non sparano e versandosi in faccia sangue come acqua da una boccia per pesci rossi, lasciando branchie all’aria l’animale, nell’agonia del non-respiro. Scatola chiusa.

Un’operazione di finissima genialità interpretativa, di grande intuizione, uno spettacolo vibrante di una follia inaspettata, di cui sempre più spesso, nel mondo degli intellettuali sterili, si sente reale bisogno.

L’ESAUSTO (o il profondo azzurro)
di Lorenzo Gleijeses
regia: Julia Varley
drammaturgia: Lorenzo Gleijeses, Julia Varley, Manolo Muoio
produzione: Teatro Stabile di Calabria, Mercadante, Teatro Stabile di Napoli
interpreti: Lorenzo Gleijeses, Manolo Muoio
drammaturgia e coreografie: Lorenzo Gleijeses, Manolo Muoio, Julia Varley
musiche a cura di: Lorenzo Gleijeses, Francesco Eco
scene e videoambiente: Paolo Calafiore
light designer: Gigi Ascione
video: Paco Capaldi
realizzazione video: Attilio Ruggiero
area tecnica: Rosario D’Alise
scenografa assistente: Ji Hye Choi
realizzazione scene: Rosario Imparato
durata: 1 h 20’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Roma, Teatro India, il 12 giugno 2009

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  1. says: Penelope

    Probabilmente non abbiamo visto lo stesso spettacolo. Ho trovato L’Esausto insostenibile come pochi. Messa in scena scoordinata, con interpreti in certi momenti monotoni in altri sopra le righe con i loro movimenti e toni forzati, tutt’altro che organici e riconducibili alla disciplina Grotowskiana (tranne forse quando Gleijeses si accascia al suolo “come bambola rotta”). Per lo più i due attori sembravano agitarsi in maniera scordinata sul palco “recitando” frasi sconnesse. E vari commenti del pubblico intorno a me non erano diversi, per non parlare dell’ilarità suscitata dall’estenuante ripetersi della scena della pistola…
    Ma il mondo è bello perchè è vario!