L’eterno marito: Carnevali e Autelli nelle torture morali di Dostoevskij

L'eterno marito (ph: Francesca Ferrai)
L'eterno marito (ph: Francesca Ferrai)

Duello all’ultima stoccata tra Francesco Villano e Ciro Masella. In arrivo il 24 a Parma e il 27 a Trento

«Il loro era stato uno di quegli incontri troppo brevi, una di quelle esperienze che non ti lasciano il tempo di capire se è stata bella o brutta, se la rifaresti o no, un po’ come quando debutti con uno spettacolo e prima che tu te ne accorga è già finito, e non sai se è andato bene o è andato male, forse non sai nemmeno perché l’hai fatto, un po’ come tutti gli spettacoli di un attore, come tutti i progetti che nascono dal niente e sfumano e non lasciano nient’altro che un ricordo […]».

“L’eterno marito” da Fëdor Dostoevskij, riscrittura di Davide Carnevali, regia di Claudio Autelli, di scena al Teatro Franco Parenti di Milano, è un abbacinante duello psicologico. È uno spettacolo sulle dinamiche di coppia, sulla contraddittorietà delle relazioni umane, sul senso che diamo al nostro lavoro e alle cose. Parla di vita, ma anche di teatro. Mette in scena le persone, gli attori e i personaggi, in un intreccio schizofrenico al cui termine ci accorgiamo di conoscere poco degli altri, ma anche di avere qualche dubbio in più su noi stessi.

Il protagonista di “L’eterno marito” è Aleksej Vel’čaninov (interpretato da Francesco Villano), un uomo di mezza età che, dopo molti anni, incontra inopinatamente Pavel Trusozkij (Ciro Masella), attempato e diabolico marito della sua ex amante Natalya, ormai morta.
L’eterno amante. E l’eterno marito. Ci accorgiamo subito dell’attualità di questo romanzo breve, scritto da Dostoevskij nel 1870. Da una parte Aleksej è un seduttore impenitente sfrontatamente libero, impacciatamente solo. Dall’altra, Pavel è un uomo che nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta sposato, si trasforma in accessorio della moglie.
L’autore mette a confronto due modelli, quello dell’artista dandy malato di edonismo, e quello del borghese nella trappola del matrimonio: chi dei due è più “irrisolto”?

La vicenda inizia in medias res, con pochi riferimenti per gli spettatori. I protagonisti si incontrano in circostanze misteriose. Il loro rapporto è segnato dal sospetto. Seppur assente, Natalya, moglie e amante, non smette di porre interrogativi. Il marito oscilla tra la posizione di nemico e quella di amico devoto. L’amante è incerto, ma pare intuire che il proprio passato torbido sarà presto smascherato. Lo scioglimento della trama è tragicomico, dal tentato omicidio alla possibilità concreta di ricostituire un nuovo triangolo amoroso.
Ad avvincere è il delirio psico-tragico. Aleksej Vel’čaninov è un ipocondriaco tenebroso capace di accensioni rapide e folgoranti. Il luciferino Pavel Trusozkij è invece un represso alcolizzato, bisognoso costantemente di mettersi alla prova con una nuova donna. Essi ci rappresentano. Personificano la nostra vita eternamente indeterminata e incompiuta. Danno forma a ciò che siamo e a ciò che avremmo potuto (voluto?) essere.

La filigrana non è d’immediata lettura, e anche in questo assomiglia alla vita. Aleksej e Pavel si detestano, si cercano, si dileguano. Si guardano allo specchio. Si disprezzano e s’invidiano. Presente, passato e futuro sembrano perennemente destinati a intrecciarsi e a riprodursi.
È il gioco del gatto col topo. Autelli dà spessore ai vari piani narrativi inframmezzando continuamente la narrazione con il linguaggio filmico, immagini registrate, telecamera in presa diretta sul palco, davanti e dietro. Anche il pubblico è fagocitato nel gioco scenico.
Una regia a scatole cinesi – a tratti cervellotica – che ci consente di entrare nei meandri dell’io e della mente altrui, nel rimbalzo tra interpreti (Ciro e Francesco) e personaggi, scandagliando i retroscena, preservando quell’alone di mistero e suspense.

La Sala A del Franco Parenti è un contenitore troppo compresso per facilitare il compito a regista e attori. Ed ecco questa scenografia da interno borghese sciatto (Maddalena Oriani), una sorta d’armadio dalle varie ante che apre labirinti da cronache di Narnia sfiancate, una camera delle “torture morali morbose” (Nietzsche). E quando non basta la scena, ecco il dietro le quinte, le uscite del teatro, lassù una galleria che più dimessa non si può, e persino i camerini con il loro disordine, in cui penetriamo con l’occhio della telecamera. E poi ancora la platea, continuamente percossa dagli attori, specie quando Villano-Vel’čaninov si produce in un ballo galante con dame del pubblico, sulle note di “Non arrossire” di Gaber, apprezzatissimo omaggio a un gigante della scena milanese.

Un aspetto che emerge nella vicenda è quello della cura. Che riguarda la piccola Liza (Lia Fedetto), figlia malaticcia nata da Natalya in tempi troppo sospetti perché Pavel abbia voglia di accudirla. «Quello che mi piace di lei – spiega Pavel – è la sua innocenza. Nella vita non ha ancora fatto niente di male, e la vita non le ha ancora fatto niente di male». Liza è un candore troppo puro per questi padri laidi e immaturi che non hanno mai smesso di essere figli. E allora, per entrambi, tanto vale cedere a nuove lusinghe di una nuova donna (Sofija Zobina) anch’essa giovanissima, ma non al punto da opprimerli con grandi responsabilità.

Il centro di gravità di questo lavoro, che si addentra nell’oscurità di Dostoevskij, è nel livello psicologico dosato con maestria da Carnevali, nella sagacia e padronanza del mestiere da parte degli attori, nella regia elaborata, ma con un quid drammaturgico, di Autelli.
Ad accentuare le atmosfere da thriller, le musiche e il design sonoro di Gianluca Agostini e le luci di Omar Scala. Azzeccati i costumi chiaroscurali di Margherita Platé.
«Il mostro più mostruoso è il mostro dai sentimenti nobili». I video di Alberto Sansone fanno da cassa di risonanza ai retroscena psicanalitici di questo lavoro tagliente che shakera stomaco e coscienza. Lasciando sulle papille un retrogusto amarognolo, e neppure una punta di sentimentalismo.
Di scena sabato 24 febbraio a Parma (Teatro del Cerchio) e martedì 27 febbraio a Trento (Teatro Cuminetti).

L’eterno marito
da Fëdor Dostoevskij
libero adattamento Davide Carnevali
regia Claudio Autelli
con Ciro Masella e Francesco Villano
in video Sofija Zobina e Lia Fedetto
scene Maddalena Oriani
disegno luci Omar Scala
musiche originali e sound design Gianluca Agostini
costumi Margherita Platé
film-making Alberto Sansone
responsabile tecnico Emanuele Cavalcanti
assistente alla regia Valeria Fornoni
organizzazione Daniele Filosi e Dalila Sena
ufficio stampa Cristina Pileggi
produzione Teatro Franco Parenti / LAB121 / TrentoSpettacoli
con il sostegno di NEXT laboratorio delle idee per la produzione e programmazione dello spettacolo lombardo, edizione 2022/2023 | Regione Lombardia, Fondazione Caritro | Provincia Autonoma di Trento, Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento

durata: 1h 35’
applausi: 3’

Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 15 febbraio 2024

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