Farm in the cave. Canzoni di emigranti per un teatro antropologico

Sclavi
Sclavi
Sclavi

La compagnia praghese Farm in the Cave ha presentato a Firenze, nell’ambito del festival Fabbrica Europa, il pluripremiato spettacolo “Sclavi/The song of an emigrant”, basato sulla ricerca svolta dal gruppo teatrale nei villaggi della Slovacchia dell’est. Traendo spunto dagli antichi canti ruteni e slovacchi, dalle lettere degli emigrati e dalla storia di Josef, protagonista del romanzo “Hordubal” dello scrittore ceco Karol Capek, la pièce porta in scena il disagio del migrante.

Un anonimo lavoratore emigrato in America ritorna nel suo villaggio in Slovacchia dopo esserne stato lontano per diversi anni, scoprendo che ora, per lui, non c’è più posto. Non appartiene più nemmeno alla sua terra. Gli sforzi per riaffermare la propria presenza si fondono e si confrontano con il ricordo del tentativo di uniformarsi laggiù, da dove proviene. Non c’è pace dunque per l’emigrato, non “là” e non “qua”. La sua non è soltanto una vita senza diritti sociali e senza identità, ma una vita privata dell’anima, di relazioni, di appartenenza.

In scena sei attori (tre uomini e tre donne) e un musicista, tutti di origini diverse, formano una compagnia multietnica che si muove seguendo il ritmo alternatamente febbrile e malinconico della musica, battuta con piedi, tamburo e fischiata da bicchieri di vetro.
La performance sottolinea il divario esistente tra l’idea che abbiamo del mondo slavo e quella che invece è la realtà; e lo fa con un’articolazione fisica e musicale che non lascia spazio a dubbi, e non potrebbe essere meglio espressa in altro modo.

Alcune delle cose che vediamo fanno parte dell’immaginario collettivo sugli slavi: i fazzoletti sulla testa, le gonne ampie, le camice da lavoro che rimandano ai campi e alle fabbriche, alla miseria; altri elementi sono invece lontani da questo immaginario, e sono le lotte, l’amore, la lussuria, la fisicità condivisa, le vite vissute all’angolo.
Storie particolari di fragilità umana, frammenti di espressioni culturali si svolgono su una scena scarna e desolata che ha come unico elemento centrale un vecchio vagone di un treno tutto arrugginito.

Il teatro di Farm in the Cave è un teatro spontaneo e fisico, contemporaneo, antropologico, etnografico, un teatro di simboli inequivocabili e metafore: come lo spezzare il pane per condividere, o entrare nella stessa camicia per proclamare un’unione. E’ un esempio, allo stesso tempo brutale e brillante, di teatro-danza che esplora l’esperienza dell’immigrato e in particolare la nostalgia del ritorno. La musica popolare e i canti rituali si combinano a un lavoro fisico che indaga la natura dell’esilio e l’agonia del desiderio e della mancanza, con una particolare abilità nell’articolare, senza parole e solo attraverso azioni fisiche, persino le immagini e i sentimenti più astratti.
Assistere allo spettacolo è un’esperienza sensoriale che unisce emozioni diverse come paura, speranza, dolore e perdita, grazie a uno sguardo brutale e illuminante sulle vite di queste persone.

SCLAVI/The song of an emigrant
regia di Viliam Docolomanský
drammaturgia di Jana Pilatová
con Róbert Nizník, Hana Varadzinová, Jun Wan Kim, Roman Horák, Zuzana Pavúková, Cécile da Costa, Anna Krsiaková, David Jánský
scene e costumi: Barbora Erniholdová
durata: 50’
applausi del pubblico: 2’ 37’’

Visto a Firenze, Stazione Leopolda 19 maggio 2009
Fabbrica Europa 09

0 replies on “Farm in the cave. Canzoni di emigranti per un teatro antropologico”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *