Teatri di Vetro 2019: la parola oltre il gesto

Chiara Frigo in Himalaya drumming (photo: Margherita Masè)|#Tre di Qui e Ora (photo: Margherita Masè)|Lei dimora nel canto_conversazioni in "Lei dimora nel canto_conversazioni (photo: Margherita Masè)
Chiara Frigo in Himalaya drumming (photo: Margherita Masè)|#Tre di Qui e Ora (photo: Margherita Masè)|Lei dimora nel canto_conversazioni in "Lei dimora nel canto_conversazioni (photo: Margherita Masè)

La sezione Oscillazioni di Teatri di Vetro ha scavalcato la sua terza serata, può quindi già essere il momento di azzardare le prime linee interpretative della rassegna romana curata da Roberta Nicolai, arrivata alla tredicesima edizione, e che prosegue fino al 22 dicembre.
Se ogni artista si presenta al pubblico con due o tre lavori, in modo da testimoniare il momento creativo che sta attraversando, questa tendenza è già chiarissima, addirittura lampante, con i due progetti che hanno incorporato anche un momento laboratoriale.

Quello di Silvia Gribaudi, condotto con Matteo Maffesanti, propone in una forma giocosa gli stessi momenti che poi saranno in scena al Teatro India due giorni dopo, presentati dalla compagnia Qui e Ora (Silvia Baldini, Francesca Albanese, Laura Valli): “#Tre” si intitola per ora, ed esordirà, completo, nel giugno 2020.
Si tratta di un lavoro ancora non organico ma che può già vantare abbastanza trovate e soluzioni da promettere bene: tre donne, scombinate miss volutamente prive del physique du rôle stereotipato, quasi personaggi da slapstick (c’è quella più stupida delle altre, e quella che si tiene un sorriso di gesso perenne sulla faccia) si esibiscono in “prove” di bellezza, intelligenza, sensualità, sovrapponendosi alle immagini proiettate di Beyoncé, ballando al ritmo di “Mueve la colita”, aderendo letteralmente alle sagome di supereroi e supereroine, bisticciandosi i numeri 1, 2 e 3, come le prime in classifica, arrivando a tentare di farsi tutt’uno con quelle cifre, sempre videoproiettate, e tentare di incarnarsi quasi in esse, controllando quanto stiano loro a pennello sopra una coscia o un gluteo.

#Tre di Qui e Ora (photo: Margherita Masè)
#Tre di Qui e Ora (photo: Margherita Masè)

La comunicazione è efficace, precisa nei suoi contorni, senza sbavature: l’unione di cifra numerica e corpo femminile raggruppa due sistemi che sembrano inconciliabili (l’essere umano e la classificazione) facendo esplodere il paradosso che è, invece, la normalità nei concorsi e nelle valutazioni (e si insiste: «Votate, votate!»).
Unico punto debole sembra essere la parte finale, in cui una delle tre performer verbalizza quanto era già stato reso evidente dagli accostamenti in scena, in un asciutto (ma forse superfluo) monologhetto sulla mercificazione del corpo.

La parola. Ecco un elemento che sembra quasi autonomamente sollevarsi dalle diverse superfici dei lavori visti in questo inizio di festival: il linguaggio verbale, il suo ruolo e il suo statuto all’interno di un teatro che ha tradizionalmente fatto affidamento piuttosto su codici “altri”.

Anche per Paola Bianchi, che pur lavora in direzione e con strumenti completamente diversi rispetto a Gribaudi, la parola ha qui un ruolo centrale. Il polittico composto dalle sue quattro presenze sul palco è una sorta di ossessiva ricorrenza, di inesausta variazione e di tempio eretto a uno sceltissimo numero di gesti, esplorati nelle loro composizioni geometriche, nelle loro possibilità di interpretazione, fraintendimento, comunicazione. Ma, soprattutto, transcodificati, trasmessi non tramite l’esempio e la pratica dell’imitazione, ma esclusivamente attraverso la descrizione verbale.

Questi pochi gesti ora passano per i quattro partecipanti al laboratorio (tre bambini dagli 11 ai 13 anni e una donna), che li fanno propri, li ampliano, li modificano, introiettandoli e poi restituendoli sporcati; ora sono diffusi – con e senza cuffia – per gli spettatori di “Undanced dance”, con la richiesta ai partecipanti di una prova d’esecuzione; fanno infine parte del nucleo centrale, rovente, di “Energheia”. Quest’ultimo denso e spinoso lavoro, a volte al limite dell’ermetismo, vibratile, ombroso (come un cavallo), accompagnato dalle chitarre di Fabrizio Modonese Palumbo, è di un’informalità a tratti spiazzante, persino violenta.
La scena è vissuta sregolatamente, a volte ignorata nei suoi spazi più scontati e accesa nelle periferie, percorsa con agogiche imperscrutabili e apparentemente aliene allo sviluppo, per accostamenti, che è quasi una suite, un rondò imprevedibile.
I movimenti, agglutinati in significanti di ardua decifrazione, ora spezzati e innaturali, al limite dello spasmo, ora diluiti in lunghi momenti di stasi, di atti scopertamente mimetici (i “passi felini”, il pugno chiuso alzato e il capo curvo), sono imprevedibili, una lontana eco – pur nella loro tensione – di qualcosa di intimo, spaventosamente più forte, occulto, che pare lui guardare noi, non viceversa. Eppure, tutto ciò ha una chiave di lettura in quelle parole che descrivono i movimenti, e che troveranno un ulteriore corpo in cui incarnarsi con “Ekphrasis”.

E mentre Bartolini/Baronio, in “Lei dimora nel canto_conversazioni”, alla parola danno l’accezione cordiale della conversazione, costruendo un salotto piacevole, placido, tutto basato sull’intervento in dialoghi/monologhi di ospiti di riguardo (fra gli altri, il critico Attilio Scarpellini, la poetessa Biancamaria Frabotta e la giovane cantante Roxana Ene, già ascoltata con stupore in “16,9 Km. Home Concert”), i due artisti ci raccontano il loro metodo centrifugo di ricerca, con il quale si accostano al tema di un progetto, accompagnati dagli ospiti. In questo caso sarà un lavoro sul kafkiano “Josefine, la cantante ovvero il popolo dei topi”, specchio della figura dell’artista e della propria necessità di esser tale.

Lei dimora nel canto_conversazioni (photo: Margherita Masè)
Lei dimora nel canto_conversazioni (photo: Margherita Masè)

Con “Himalaya Drumming” il palco è conquistato dalla potente Chiara Frigo. E per una volta l’aggettivo, così di moda, non è iperbolico: guardatela in scena, graffiare e consumare lo spazio agganciata alla batteria live di Bruce Turri e alla musica di Steve Reich, attraversare e dare un senso ai colori delle luci ipercinetiche di Moritz Zavan Stoeckle, insieme alle quali scardina i volumi della sala, facendosi tutta musica e moto lei stessa, masticando l’aria come un animale selvaggio, chiomato.

Dopo questa “eccezione”, ancora la parola rivendica il suo peso, stavolta di vita o di morte davvero, nel primo studio (“L’incidente è chiuso”) di Menoventi per uno spettacolo omonimo di “Il defunto non amava i pettegolezzi”, eccezionale libro di Serena Vitale.
Di vita e di morte, letteralmente, perché ciò di cui si parla sono le due versioni che Veronika Polonskaja, attrice del Teatro d’Arte di Mosca e amante di Majakovskij, fornì immediatamente dopo la morte del poeta e a distanza di otto anni, dopo che era stata l’ultima persona a vederlo in vita.
Con un espediente esso stesso majakovskiano, il viaggio nel tempo, Gianni Farina mette la Polonskaja sotto la doppia lente di ingrandimento di un’inviata del futuro (Consuelo Battiston), ponendola a confronto con le sue incongruenze.
L’attrice, interpretata da Federica Garavaglia, risponde, piange, mente sulla glaciale scena disegnata da un nastro fluorescente (le dimensioni della stanza del poeta) e da quattro colonne al neon, usando le esatte parole tratte dai dossier desecretati dopo la caduta dell’URSS e dalle “Memorie” della Polonskaja stessa, pubblicate decenni dopo. E qui, davvero, è tutta questione di parole da usare come attrezzi, di dialogo che tenta la verità: contraddizioni, amore, disamore, pietà, leggerezze, ricordi persi e ritrovati, conversazioni più o meno inquirenti, cinguettii d’innamorati e violenti contrasti. E la parola nella sua forma somma, quella poetica.
In scena conquista, nonostante la difformità all’originale, il Majakovskij di Mauro Milone: fa sempre impressione, e suscita un certo imbarazzo, la visione di un costume d’epoca così da vicino, col suo tessuto sempre troppo lucido, il cravattino, le scarpe imperfette. Eppure Milone ce lo fa dimenticare, con una torturata interpretazione – tutta a punta, di volto, minuziosa – dei versi, ma soprattutto dei pensieri, che scavavano il cuore debole del gigante georgiano (la «statua percorsa da gocce di sudore gelido» scrisse Pasternak), prima ancora che li seguisse, da vicino, la pallottola della piccola, quasi ridicola, rivoltella Mauser.

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