Intervista a Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, in arte Fibre Parallele. Il teatro, la coppia e la crisi. Miscelate con la loro ironia
Nei camerini del nuovo Elfo Puccini di Milano, dove sono stati ospiti la scorsa settimana, si perde il senso del tempo e dello spazio. Sono bianchi e freddi, per essere camerini teatrali.
Seguo Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, in arte Fibre Parallele, in una di queste stanzette, dopo aver assistito al loro spettacolo “Have I none” di Edward Bond, testo commissionato loro per la rassegna romana “Trend – Nuove frontiere della scena britannica”. E proprio in quell’occasione Klp ne aveva già parlato.
Ma la nostra prima intervista con loro risale al 2009: in mezzo ci sono due anni di successi che li hanno portati ad essere fra le giovani compagnie italiane più interessanti.
Ci sediamo su poltroncine rosse da ufficio e cominciamo.
Vi è piaciuto fare questo spettacolo?
Licia: all’inizio no, credevamo che ci fosse capitata una disgrazia, abbiamo bestemmiato in una lingua ben più cruda di quella che hai sentito usare stasera (una lingua pugliese feroce e dolce, quasi un canto) ma ora ci divertiamo moltissimo. E‘ diventato un gioco: to play, recitiamo con quel senso.
E perché cotanto sconforto iniziale?
Licia: questo testo non l’abbiamo scelto, ce lo ha commissionato Rodolfo di Giammarco per Trend. A una prima lettura ci sembrava davvero lontano dal nostro modo di fare le cose; andando avanti col lavoro, invece, abbiamo trovato un sacco di punti di contatto. E’ diventato un dono.
Allora: com’è fare teatro di prosa ‘tradizionale’?
Licia: Beh’, proprio tradizionale, tradizionale non direi… Ma se questo serve a girare un po’ di teatri comunali, ben venga!
Come avete conciliato, in “Have I none”, la partitura molto schematica che è quella che dà il testo con i margini di libertà di un teatro più fisico e diretto?
Riccardo: non siamo abituati a lavorare con un testo, di solito; abbiamo un canovaccio e scriviamo durante le prove. Io mi occupo delle parole e Licia delle immagini. In questo caso le parole erano già state scritte. Abbiamo cercato di dare un’impronta che ricongiungesse il testo a ciò che facciamo di solito, ma ci siamo trovati con dei grandi problemi: non avevamo un attore maschio che potesse fare la terza parte, avevamo pochi soldi a disposizione e tanto tempo. Eravamo veramente in crisi.
Secondo voi mettere in scena un testo di un drammaturgo inglese contemporaneo, dà più chance di girare in un certo tipo di circuiti, rispetto magari al vostro “Furie de Sanghe”, teatro tutto di carne e passioni ma non di parola in senso tradizionale?
Riccardo: Sono possibilità diverse. Il problema è che le due cose sono compartimenti stagni; il vantaggio di un’operazione come Trend sta allora nel far entrare in comunicazione una cosa totemica come il testo con le compagnie che fanno teatro contemporaneo.
Licia: È molto difficile che nei comunali dei circuiti regionali, ad esempio, prendano i nostri spettacoli. Mettere in scena il testo di un autore che in questo momento ha una visibilità importante, un testo con una partitura precisa, ci dà una nuova possibilità di cercare altri luoghi dove poter recitare.
E forse anche un pubblico nuovo. Avete già recitato in teatri comunali di circuiti tradizionali?
Licia: una volta siamo andati con “2.(due)” in Calabria. Un padre ha addirittura portato fuori la figlia, mentre lei era intenta a seguire lo spettacolo. Nonostante l’episodio, credo che si possa parlare a tutti. In questi giorni abbiamo avuto un pubblico anche di età matura che ha reagito benissimo.
Siete una coppia d’amore o di odio? Quanto le due parti si compenetrano, chi è l’uomo della coppia?
Riccardo: io sono l’uomo naturale e sullo stato di famiglia.
Licia: sull’amore abbiamo costruito tutto, sull’odio pure. Questo è stato un periodo molto difficile, le due ultime produzioni (“Have I none” e “Duramadre”) hanno alimentato molto più odio che amore. Ora che gli spettacoli sono compiuti siamo in una fase un po’ ammorbata, c’è grossa crisi nel teatro italiano…
Cosa farete per uscire dalla crisi?
Licia: ci prendiamo una vacanza. Da soli. Uno da una parte, l’altro dall’altra.
Riccardo: io vado in Brasile.
Licia: io mi faccio un giro in macchina per tutta l’Italia.
Per superare questa benedetta crisi, pochi soldi e molto tempo può essere la nuova formula produttiva e creativa per le compagnie?
Licia: No. Se hai pochi soldi, hai poco tempo. Noi ce lo siamo preso il tempo, ma è stato quasi un suicidio, e l’abbiamo potuto fare perché Maria Luisa, la terza attrice, ha dimostrato grande disponibilità e grande amore, ed è bravissima. Io ho interpretato l’uomo nello spettacolo perché abbiamo incontrato lei che poteva lavorare con noi. E’ tutto nato da una magia. Per me il teatro è magnifico perché ci si sforza in continuazione per fare uno spettacolo in una determinata maniera ma, alla fine, lo spettacolo si fa da solo, come dice Riccardo. Questo lavoro dovevamo farlo io, lui e un altro attore. Abbiamo cercato un sacco di parallelismi sulla società contemporanea, riferimenti legati alla politica, Nord e Sud, la Lega… Non sai quanto ci siamo sforzati per cercare la chiave di interpretazione, poi io ho deciso di interpretare il ruolo maschile per necessità, e questo ha fatto sì che si aggiungessero l’incipit in cui tutti ci trucchiamo a vista e il finale in cui ci spogliamo, dichiarando la finzione.
Riccardo: Per noi questo spettacolo non è la storia di Bond, ma la nostra nel cercare di fare questo spettacolo, la storia della nostra crisi nel farlo.
Licia: Quando Rodolfo Di Giammarco ci ha chiamato dicendoci che c’erano pochi soldi, che c’era questo testo e una data di debutto, noi eravamo nella stessa situazione dei personaggi che stanno per essere investiti da un’epidemia di suicidi: esattamente sull’orlo del ponte, dovendo decidere se buttarci giù o tornare indietro. Mi è capitato, negli stessi giorni, di ascoltare il pezzo “Rock and Roll Suicide” di Bowie (tema dello spettacolo) e ho pensato: “Riccardo ho capito qual’ è la chiave! Siamo noi che, fallimento dopo fallimento, siamo arrivati sull’orlo del baratro”. Queste nostre morti continue erano le morti dei personaggi di Bond; sta nel nostro fallimento, e nel suicidio di accettare di fare questo testo, l’aver trovato la vita.
Riccardo: Fare teatro in Italia oggi, per una giovane compagnia, è un suicidio rock and roll!
In “Have I none” c’è un momento di climax, in cui una delle tre protagoniste, con il volto coperto da una calza e una pelliccia colorata, apre le braccia diventando una farfalla. Parlatemi di questa immagine.
Licia: Ci siamo attenuti alle regole precise che ci ha indicato l’agenzia che ha concesso i diritti di rappresentazione dello spettacolo. Nelle note di regia al testo è specificato che, nella scena centrale, il personaggio di Sara entra con un cappotto e poi segue il dialogo clou. Abbiamo usato una calza che coprisse il volto ed annullasse i lineamenti. Io l’avevo pensata nuda con la calza, ma abbiamo trovato questa pelliccia favolosa e colorata e l’abbiamo usata. Nel testo Bond cita continuamente i volti vuoti dei suicidi; il personaggio di Sara spicca il volo quando ritrova il sentimento nel dialogo con il fratello e nella memoria dell’infanzia.
Rewind. In “2. (due)” raccontate una storia d’amore che finisce in omicidio; in “Furie de sanghe, emorragia cerebrale” mettete a fuoco le dinamiche feroci di una famiglia barese; in “Have I none”, invece, un futuro abbastanza prossimo dove scoppia un’epidemia di suicidi. Che cosa vi hanno fatto da piccoli?
Riccardo: Mi hanno trasferito di città in città almeno cinque volte e io mi sfogo così…
Licia (ride): Come dice Bond (lo cito pure dopo averlo tanto denigrato), “cosa fa la gente quando ha tutto? Un bel giorno ti chiede in ginocchio di portarla via”. Io sono figlia unica, sono stata molto amata e ho dovuto trovare un senso di autodistruzione.
Le tematiche sono forti e parlate sempre di cose estremamente negative. Datemi una speranza, un’immagine di gioia…
Licia: La gioia sta nell’artista, che fa questo pur parlando di cose tremende, e sta nel poterle affrontare liberamente, senza tabù. Poi, nei nostri spettacoli, parlando sempre di figure al margine (sottoproletariato, assassini, solitudini) è come se restituissimo una certa dignità a chi non ce l’ha mai avuta o non ce l’ha più. Mi piace trovare il lato buono di persone che, apparentemente, sembra che di buono non abbiano nulla.
A questo proposito, avete tenuto due residenza all’interno del carcere minorile di Bari, ospiti del laboratorio storico del Teatro Kismet. Questo ha portato a due studi, con protagonisti due ragazzi detenuti di 15 e 17 anni: Ignazio e Yeye. Che cosa è successo?
Licia: Il primo anno abbiamo lavorato sul dialetto. La prima volta si trattava di una tappa del progetto per “Furie de Sanghe” e quindi bisognava parlare di violenza, di stupri e ferocia lì dentro. All’inizio eravamo un po’ intimiditi, ma poi ci siamo sciolti e i due studi sono stati una bomba.
Come avete lavorato?
Riccardo: Non volevamo usare i testi fedelmente, ci sembrava che li facessero apparire attori che recitano male. Volevamo usare le loro cose, e così abbiamo lavorato molto con le improvvisazioni. Per “Jukebox Kamikaze”, il secondo studio, ci siamo fatti raccontare tutti i loro sogni, come si vedevano del futuro. Ignazio voleva essere Tarzan e Yeye voleva essere più ricco di Ronaldo. Siamo stati anche sgridati dal Direttore perché siamo stati indisciplinati: la pizzeria migliore di Bari si trova proprio di fianco al carcere. Ad un certo punto, in scena, uno di loro mangiava il panzerotto fritto che avevamo portato dentro dalla pizzeria. Peccato che sarebbe vietato. Ma lui se l’è mangiato con grande soddisfazione, mentre tutti gli altri gli gridavano dietro: “Chit’e muort!!”.
Il primo studio invece finiva con Ignazio che quasi camminava sulle pareti dall’energia che sprigionava.
Dopo il secondo anno, anche il Direttore era molto contento, nonostante avessimo usato anche cartelli enormi con su scritto (brechtianamente) “Odio le assistenti sociali”. E’ stata un’esperienza meravigliosa.
Cosa vi ha colpito di più?
Licia: Hanno un’energia incredibile e non c’è dolore. Se c’è, esce inaspettato e ti dilania. Noi abbiamo un approccio artistico, in generale, molto fisico, e ci siamo accorti dopo un solo giorno di lavoro che parlavamo la stessa lingua. Là dentro succedeva di tutto.
E non siete più tornati?
Riccardo: Al Fornelli (il minorile di Bari) non ci hanno più chiamato, ma se il carcere femminile di Trani ci volesse…
E i vostri attori?
Licia: Maria Luisa Longo, che hai visto oggi, è anche odontoiatra. Corrado La Grasta, il mio attore feticcio che ha fatto con noi “Furie de Sanghe”, è un impiegato comunale. Mi interessa la tecnica, che loro hanno, ma mi interessa soprattutto che si portino dietro un mondo.
Vi riconoscete nel sistema che vi produce, vi promuove, vi premia?
Riccardo: Lo si può chiamare “sistema”? In questi anni abbiamo incontrato persone che ci hanno ascoltato e dato spazio, in situazioni anche piccole. Non lo chiamerei un sistema…
Licia: E’ vero che c’è una rosa di artisti che sono più o meno sempre gli stessi nel teatro giovane. Io ho iniziato a fare il mio lavoro e mi “sono rotta il culo” (scrivilo) investendo soldi a palate, soldi miei che non ch’o una lira. Con “Have I none”, a chiamata si è risposto, perché amiamo profondamente questo lavoro; se ora raccogliamo dei frutti è perché per due mesi abbiamo sputato il sangue e mia madre ha cucito i piccioni della scenografia uno ad uno.
Noi vivevamo a Bari, ci viviamo tutt’ora, eravamo fuori da tutti i circuiti. Non siamo figli di nessuno. Lavorando, ci siamo riusciti. Credo che, tra tutti i gruppi giovani italiani che girano, non ce ne sia nessuno che non se lo merita e che non valga ciò che ha e non venga applaudito. Io non ero uno dei “soliti”, quando i Babilonia Teatri vincevano il Premio Scenario nel 2007, noi non siamo arrivati neanche alla semifinale e ora giriamo più o meno nelle stesse stagioni. C’è spazio per tutti.
Perché avete fondato una compagnia?
L&R: Perché ci volevamo suicidare in maniera rock’n’roll!
Licia (seria): Perché non avevamo scelta.
Spiegare il mio punto di vista sul tuo commento significherebbe invadere questo spazio con un pensiero critico personale e non voglio farlo. Dunque lascio un commento per certi versi simile al tuo.
Per l’ennesima volta, paragonare Fibre a Ricci/Forte mi offende come spettatore. E di certo offende Fibre come gruppo. E non è (solo) un fatto di qualità, tantomeno di gusti. Per Ricci e Forte nutro un grande rispetto, al di là che apprezzi o meno il loro teatro. Ma dire che il teatro di Fibre Parallele somiglia al loro, che non ha “niente di più” è davvero uno sguardo miope.
Vedi alla voce Ricci/Forte. Niente di più.