Il finale di partita di Massimo Castri: saggio magistrale di regia e interpretazione attoriale

Finale di Partita
Finale di Partita
Finale di Partita (photo: Massimo Norberth)

Una figura allampanata sta al centro di un ampio salotto ‘fin de siècle’, tra pareti, camino e stucchi grigi, come unica presenza viva. Accanto a lui, una sedia coperta da un lenzuolo; più avanti un paio di bidoni, sempre grigi, ugualmente sotto un telo; ai lati, due alte finestre chiuse. Nient’altro. In questo interno borghese, le pattumiere concretizzano la logica paradossale dei giocatori, alle prese con le ultime mosse di un “Finale di partita” condotto con matematica precisione.

La partita beckettiana diretta da Massimo Castri comincia non appena l’uomo si muove sul pavimento bianco e nero della bella scenografia di Maurizio Balò: il rumore dei passi legnosi con cui attraversa la stanza scandisce ritmicamente un tempo composto da pause (sotto ciascuna finestra) e ripetizioni dello stesso percorso, dopo l’uscita e il ritorno in scena con una scala. L’avvio sonoro dei giochi su questa metafisica scacchiera cresce senza parole, con le risate secche di Clov (Milutin Dapcevic) dirette fuori a ciascuna finestra, poi sotto il coperchio di ogni bidone, infine all’altro uomo che scopre sollevando il lenzuolo.

Ma anche quando Clov parla per la prima volta, annunciando che «è finita, sta per finire», la voce di Dapcevic si muove su alti e bassi di note attorno al centro del pentagramma, ora morbide ora decise: la regia di Castri sfrutta bene le abilità tecniche degli interpreti, sviluppando uno spettacolo di forza e coerenza musicali.
Immobile sulla sedia a rotelle, il cieco Hamm (Vittorio Franceschi) impartisce ordini per soddisfare capricci e minacce: un rituale che sembra ripetersi ormai da tempi immemorabili, di cui Clov è l’esecutore designato fin dalla nascita. L’interpretazione di Franceschi compone una netta partitura vocale, fatta di scarti esibiti e giocati sul contrasto di toni, di sonorità nasali e bassi gutturali; pochi gesti ricorrono, evidenziati dalla quasi totale staticità: la schiena protesa in avanti, il movimento ritmico delle mani, la smorfia della bocca.

Nell’impossibilità del servo di sottrarsi al padrone, Beckett rappresenta una condizione di tipo esistenziale piuttosto che socio-politica, che Castri coglie sottolineando il rapporto speculare, di complementarità tra i due personaggi. Vestiti uguali, in giacca da camera di velluto rosso e pigiama bianco, Hamm e Clov conducono discorsi già compiuti mille volte, ma alle esplosioni di insofferenza reciproche si affiancano quelle di complicità: speculari anche nella malattia (uno non può alzarsi, l’altro non può sedersi), sono forse gli ultimi superstiti di una natura che si ripete senza senso, in cui è bene che il genere umano non si ricostituisca. E così insieme scoppiano in una risata (la più forte aggiunta registica) al ricordo di un pazzo: ma erano «altri tempi», «belle époque», tragicamente ridicola.

D’altra parte, «non c’è niente di più comico dell’infelicità» è la battuta più celebre della pièce, che Nell lascia cadere sulla platea affacciata dal suo bidone. Residui della catena biologica, i progenitori di Hamm (in cuffietta e berretto da notte secondo didascalia), sono candidi pupazzi persi in vecchi ricordi: la loro comparsa spezza quel cronometrico ritmo dell’avvio con un duetto di voci chiare – il falsetto di Nagg (Antonio Giuseppe Peligra) e i sospiri svenevoli della consorte (Diana Hobel) – e imprime una crescita all’andamento musicale: nel fiume sonoro delle loro parole, il silenzio immobile di Hamm si fa denso, pesante. Per paradosso, l’assurda apparizione rende più prossima alla normalità la coppia dei protagonisti, e progressivamente lo stato doloroso in cui sono immersi è lucida coscienza del non senso universale.

Se il gioco è stato condotto da Hamm, la mossa finale spetta a Clov, che lo abbandona. Il suo monologo segna l’apice lirico della partitura spettacolare: qui il corpo di Dapcevic, fermo, perde quella rigidità cui finora è stato costretto, getta la maschera da marionetta futurista che magistralmente l’attore ha composto con movimenti a scatti e deformazioni mimiche fino al parossismo nella scena dell’antipulci. Il ritmo serrato rallenta, la voce di Hamm scivola nel silenzio.
Resta uno spettacolo che è un saggio magistrale di regia e interpretazione attoriale, compiuto nel canone beckettiano ma fuori da cliché, che sta chiuso su di sé come solido e inscalfibile pezzo di cultura teatrale.

FINALE DI PARTITA
di Samuel Beckett
produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Teatro Metastasio Stabile della Toscana
regia: Massimo Castri
traduzione: Carlo Fruttero
interpreti: Vittorio Franceschi, Milutin Dapcevic, Diana Hobel, Antonio Giuseppe Peligra
scene e costumi: Maurizio Balò
luci e direzione tecnica: Robert John Resteghini
suono: Franco Visioli
regista assistente: Marco Plini
macchinista: Andrea Bulgarelli
costruzioni scena: D. ex M. srl
realizzazione costumi: Nuvia Valestri
durata: 1h 45’
applausi del pubblico: 2’ 50’’

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 30 aprile 2010

Join the Conversation

No comments

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

  1. says: Krapp (Il fidanzato di Caterina)

    Amiamo il suo minimalismo ma, a differenza di quanto accade con Twitter, qui può esprimere la sua opinione (in un unico commento) anche utilizzando più di 140 caratteri. Grazie.

  2. says: solidale

    se avete il biglietto regalatelo al vostro peggior amico. Non penso che un nemico sarebbe così stupido da abboccarci