Fit 2019. Sguardo alla scena dal mondo, da Hebron a Sudafrica e Corea del Sud

Cuckoo del giovane artista sudcoreano Jaha Koo|H2 Hebron di Winter Family|Lovers
Cuckoo del giovane artista sudcoreano Jaha Koo|H2 Hebron di Winter Family|Lovers

Come succede da oltre vent’anni, ci siamo recati a Lugano per passare due giorni di interessanti visioni teatrali al FIT, il Festival internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea, dedicato quest’anno alla cara e dolce memoria di Vania Beretta Piccoli, che lo ha inventato e diretto per innumerevoli anni e che da pochi mesi ci ha lasciato.
Un festival che ha sempre offerto l’opportunità di vedere il meglio della scena internazionale e che, anche in questa occasione, ha ospitato presenze di eccezione come i Rimini Protokoll, Milo Rau o Kornel Mundruczo con il suo bellissimo “Imitation of life” e ancora il gruppo spagnolo La Tristura.

Quest’anno la manifestazione svizzera, che si è tenuta dal 24 settembre al 6 ottobre, diretta da Paola Tripoli e Carmelo Rifici, anche direttore di Luganoinscena, aveva come emblematico titolo “I giorni del non amore”. In questo ambito molti degli spettacoli proposti hanno toccato il tema di come la violenza e il potere stiano distruggendo i valori su cui dovrebbe reggersi la comune civiltà umana. “Sono giorni senza poeti, giorni in cui il sonno della ragione genera mostri” ci rammenta Tripoli nella sua introduzione al festival.
Ben si collegano a tutto ciò le tre piccole performance a cui abbiamo assistito, piccole ma di grande rilevanza per la capacità di scavare in tutte le contraddizioni insite in tre luoghi assai differenti, situati ai loro antipodi, accomunati però in diversi periodi della loro storia, da un modus vivendi in qualche modo non più sostenibile.
Tutti e tre gli spettacoli, mescolando il personale e il politico, sono raccontati con un efficace uso del video e da persone che hanno preso le distanze da quel luogo, pur avendone dentro la nostalgia, l’essenza più intima, miste nel medesimo tempo a disgusto.

Iniziamo da “H2 -Hebron” del duo franco israeliano Winter Family. H2 è l’area amministrata da Israele nella città palestinese di Hebron, dove erano situati Shuhada Street, la strada centrale, e il mercato della città, con 200.000 abitanti, la città più popolata della West Bank in Palestina.
Ora invece Hebron è una città fantasma dove convivono, tra reciproche paure e vendette, palestinesi, coloni, soldati, attivisti internazionali e dove Shuhada Street è diventata un’arteria “sterilizzata”, secondo la terminologia dell’esercito israeliano, vale a dire svuotata dei suoi abitanti palestinesi per “motivi di sicurezza”, a causa della sistemazione all’ombra della Tomba dei Patriarchi di alcune famiglie ebraiche radicali, protette dall’esercito israeliano.

H2 Hebron di Winter Family
H2 Hebron di Winter Family

Ruth Rosenthal su un semplicissimo grande tavolo piano ricostruisce con un plastico a mo’ di puzzle e con dei modellini tutto l’impianto del territorio e il suo sviluppo negli anni.
L’attrice ci racconta per filo e per segno, senza rancore alcuno, ogni avvenimento attraverso le testimonianze raccolte dal vivo della sua amica d’infanzia israeliana S., che vive con i suoi undici figli a Tel Romeida, cittadella protetta giorno e notte da 40 giovani soldati, l’insediamento più radicato nella città di Hebron, dopo aver sposato un leader estremista ultra-sionista.
Rosenthal e Xavier Klaine, la Winter Family, hanno attraversato anche i checkpoint disseminati per il territorio per registrare le testimonianze dei loro vicini, di alcuni leader politici palestinesi residenti a Hebron, di osservatori internazionali, “turisti di guerra” e delle loro guide, oltre che di accademici e giornalisti. Il clima di quella terra viene condiviso con gli spettatori, seduti intorno al grande tavolo, attraverso piccoli accorgimenti che pian piano diventano sempre più significativi, inondando di fumi, rumori e caldo, prodotto da appositi radiatori, lo spazio della performance, rendendola ancora più viva ed emozionante.

Dopo la Palestina è la Corea del Sud ad essere rappresentato nelle sue estreme contraddizioni. Qua nè la guerra né lo scontro religioso rendono palpitante la materia dello spettacolo, ma la crisi economica che interessò il paese asiatico tra il 1997 e il 1998, fomentata anche dal Fronte Monetario Internazionale e dagli Stati Uniti.
Nella performance, “Cuckoo”, il giovane artista sudcoreano Jaha Koo ci fa percorrere un vero viaggio nella sua terra, attraverso gli ultimi venti anni di storia coreana, utilizzando anche un gruppo di fornelli da cottura per il riso, vendutissimi in quei momenti, che nella performance prendono vita parlando direttamente con il pubblico.
Nel racconto di Jaha Koo e dei suoi fornelli, che con ironia stemperano la tragicità degli avvenimenti narrati, entriamo di petto in quella crisi che ha avuto un enorme impatto sulle giovani generazioni sudcoreane con l’accentuarsi della disoccupazione, l’ineguaglianza socio-economica che portò ad un innalzamento dei tassi di suicidio attraverso un “isolamento indifeso” che ha segnato indelebilmente anche la vita dell’artista. Le immagini e i racconti, tra pubblico e privato alla ricerca di una felicità, forse impossibile, si mescolano sapientemente per consegnarci la fotografia emozionale di un periodo storico di un grande paese, così lontano dal nostro.

Lovers, Dogs and Rainbows
Lovers, Dogs and Rainbows

Eccoci poi infine a “Lovers, Dogs and Rainbows”, videoperformance dell’artista sudafricano Rudi Van der Merwe (vietata ai minori di 16 anni), che anche qui focalizza lo sguardo dello spettatore su una porzione di territorio assai lontana da quella esaminata negli altri due spettacoli, ma, seppur sotto altri aspetti, anche questa zeppa di contraddizioni, la città di Calvinia in Sudafrica.
E anche qui il l’autore che ora vive a Ginevra, mescolando la sua storia personale con il clima oppressivo della sua città natale, ci offre uno sguardo disincantato sul rapporto tra ereditarietà e identità.
Van der Merwe, attraverso le immagini ci porta nel cuore della sua città, vent’anni dopo che l’ha lasciata, rivisitando le persone e i luoghi della sua giovinezza, focalizzandosi soprattutto sui gruppi di emarginati come le donne di colore, la comunità LGBTIQ e i cani. Partendo da Calvinia, il filmato esplora dunque di converso la realtà post-apartheid e le disuguaglianze presenti in tutte le città del Sud Africa, dove l’artista è cresciuto, dove vigeva e vige ancora un modello di mascolinità e patriarcato bianco che in fin dei conti definiva anche l’apartheid.
Alla fine, andando alla ricerca di sé, davanti alle immagini che scorrono sullo schermo bianco, Rudi Van der Merwe, diventato Drag Rosie Van Doorn, si esibisce in numeri canori di grazia e candore assoluti, confessando, seppur con qualche momento di nostalgia, di essersi finalmente liberato da quei modelli che gli erano stati imposti, per vivere in sintonia con il suo pubblico finalmente un’esistenza libera e consapevole.

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