Lo sguardo politico e internazionale del FIT 2017

Assetati di Wajdi Mouawad
Assetati di Wajdi Mouawad

Giunto quest’anno alla ventiseiesima edizione, il Festival Internazionale del Teatro di Lugano, meglio conosciuto come FIT, è sempre stato un’occasione irrinunciabile per conoscere realtà provenienti da altre culture teatrali, europee ma non solo.
Anche l’edizione che si è appena conclusa, diretta come di consueto da Paola Tripoli, ed inserita nella programmazione di “Lugano in scena” (a sua volta condotta dallo sguardo curioso e attento di Carmelo Rifici), ha confermato questa unicità, presentando spettacoli provenienti, oltre che dall’Italia e dalla Svizzera, anche da Inghilterra, Serbia, Belgio, Cile, Egitto, Olanda e Germania. Un’edizione che ha consegnato agli spettatori, che hanno gremito le varie sale del LAC e dello Studio Foce, un teatro fortemente politico, nel senso più etico del termine.
Ci soffermiamo oggi sulle due ultime intense giornate, che hanno visto quattro spettacoli davvero interessanti provenienti da altrettante diverse parti del mondo.

“Assetati” (Asoiffes), testo del libanese Wajdi Mouawad, scritto con la collaborazione di Benoît Vermeulen, è presentato in una mise en espace di Caterina Gozzi. Affascina da subito per la sua scrittura ricca di suggestioni che navigano perfettamente nei turbamenti che appartengono oggi all’adolescenza.
Tra invenzione letteraria e realtà, lo spettacolo indaga su diversi piani la disillusione profonda che ha invaso le nuove generazioni. La bella fantasia inventiva che muove tutta la creazione è l’indagine, affidata all’antropologo forense Boon, per dare un’identità a due corpi recuperati in acqua, quelli di un ragazzo e una ragazza, intrecciati da così tanto tempo nella morte da essersi fusi l’uno con l’altra.
Boon scoprirà piano piano che i corpi appartengono a Murdoch, giovane in crisi sul senso dell’esistenza, misteriosamente scomparso quindici anni prima, e a Norvège, ragazzina creata dalla sua immaginazione e che la scena riporta in vita con tutta la sua rabbia, spesso silente, verso un’esistenza dominata dalla bruttezza che le si è infilata dentro il petto, rappresentata da una vera e propria orrenda piovra. Murdoch e Norvège, assetati di verità e di bellezza, riusciranno però, attraverso il loro sacrificio, a mutare il rapporto con il mondo dell’ormai adulto antropologo forense.
Tradotto con efficacia da Caterina Gozzi, pur con qualche punta eccessiva di letterarietà, “Assetati”, già messo in scena in vari Paesi, vive qui attraverso la performance di tre giovanissimi attori – Alessandro Bandini, Ugo Fiore e Marta Malvestiti – molto bravi a rendere la disperazione di un’intera generazione, in qualche modo travolta da un mondo che ha perso la dimensione della bellezza.

Su tutt’altro versante, in un’altra parte del mondo, Manuela Infante, una delle giovani più promettenti del teatro cileno, in “Estado vegetal” ha proposto un monologo a più voci davvero straniante.
Lo spettacolo si basa sul pensiero di due filosofi e neurobiologi vegetali, Michael Marder e Stefano Mancuso, che suggeriscono di riconsiderare il mondo vegetale come un universo provvisto di intelligenza e di anima, capace di trasformare le azioni dell’uomo, anzi di sostituirsi a lui, che ha perso le dimensioni reali del suo esistere.
L’occasione di un simile capovolgimento è data dalla morte di un giovane centauro, che con la sua moto è andato a sbattere contro un albero, rimanendo in stato vegetativo.
Tutte le persone che, in un modo o nell’altro, sono state coinvolte nell’avvenimento si presentano a proporre le proprie ragioni e visioni sull’accaduto, sottoponendosi ad un mondo, quello delle piante, che in qualche modo li governa a loro insaputa.
Ma la salvaguardia e la rivincita dell’umanità, a nostro parere, sono rappresentate dalla magnifica prestazione proteiforme di Marcela Salinas e, soprattutto, della sua autentica disperazione di madre davanti al povero corpo del figlio che giace in ospedale, perché il teatro, al di là di tutto, non può che avere al centro della sua analisi non tanto le piante, quanto semmai tutta l’umanità, con le sue contraddizioni e fragilità.

Estado vegetal (photo: Maida Carvallo)
Estado vegetal (photo: Maida Carvallo)

E’ poi un autore egiziano, Ahmed El Attar, che in “Before the revolution” ci racconta come era il mondo e la realtà sociale egiziana prima di quel fatidico 25 gennaio 2011, quando molta parte della società, soprattutto le nuove generazioni, si ribellò con forza al trentennale regime del Presidente Hosni Mubarak.
Sei anni dopo cosa è rimasto, si domanda El Attar, di quella ribellione? Cosa resta oggi di quell’innato bisogno di cambiamento che era emerso con tanta forza? E cosa ricordiamo del tempo che era prima?
Sono solo parole, che i due impassibili performer ci sbattono in faccia, con un ritmo travolgente, attraverso una serie di fatti, racconti, situazioni anche divertenti e fortemente simboliche che hanno caratterizzato quegli anni.
In questo modo, assecondati da un commento sonoro incessante ed ossessivo, Nanda Mohammad e Ramses Lehner, in una scena assolutamente minimalista, stretti su un palco coperto da chiodi, ripercorrono il passato riflettendo inevitabilmente su un presente che ha tradito, in modo forse irrevocabile, quelle speranze.
Anche qui dunque siamo di fronte ad un teatro politico che si infila direttamente nelle pieghe della storia per mostrarne i risvolti più amari e controversi.

Before the revolution
Before the revolution

Con estrema curiosità assistiamo poi alla particolare versione che il celebrato maestro svizzero-tedesco Boris Nikitin compie dell’Amleto scespiriano, che alla fine si mostra come una coraggiosa e straziante riflessione sul corpo e sullo sguardo che abbiamo rispetto al corpo, nostro e altrui.
Ecco allora che il capolavoro del Bardo viene preso, ancora una volta, a metafora di un discorso molto più ampio, che trasborda verso la condizione dell’uomo contemporaneo.
Completamente rasato, con il suo corpo ondulato, fragile e potente nel medesimo tempo, Julian Meding – accompagnato dal quartetto barocco Musikalische Basilea Der Gartenil, che in qualche modo tradisce coraggiosamente la musica per cui è preposto – si presenta sul palco parlando di sé e del suo disagio, cantando come una rock star la sua disperata vitalità che non accetta di vivere in un mondo così.
Come Amleto, Nikitin, attraverso il corpo di Meding, ci fa capire tutto l’orrore di un mondo falso e ingannevole che lo ha espulso perché portatore di una verità che egli intende condividere con forza, attraverso il teatro, con gli spettatori. Perché solo attraverso il teatro questa verità può essere condivisa.
Al contempo offre anche il proprio corpo di performer allo sguardo dello spettatore, un corpo che si presenta sotto molteplici aspetti (uomo, attore, personaggio…) e che sullo schermo si doppia e si sdoppia, catapultandosi tra le immagini di un grande ospizio per anziani, dove il corpo si indebolisce sino ad estinguersi.
Un altro spettacolo dalla forte valenza politica, che si raccorda perfettamente con i precedenti, simbolo di un teatro necessario che il festival svizzero ha scelto come missione irrinunciabile.

Hamlet (photo: Donata Etlin)
Hamlet (photo: Donata Etlin)
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