Uno dei comparti dello spettacolo più danneggiati dalla pandemia, per varie ragioni, è stato quello legato all’opera lirica.
Per capire le difficoltà che sta attraversando questo importante e rappresentativo settore della nostra cultura abbiamo intervistato Francesco Micheli. La carriera professionale di Micheli, classe 1972, si è sviluppata, nel tempo, secondo un doppio binario: da una parte il percorso come direttore artistico di manifestazioni di rilevanza internazionale, strettamente connesso all’ideazione di progetti innovativi sempre in ambito operistico; dall’altra corre parallela la copiosa attività di regista in Italia e all’estero, senza trascurare l’insegnamento (da undici anni è docente di regia al biennio di specializzazione in Scenografia dell’Accademia di Brera).
Dal 2012 al 2017 è stato direttore artistico del Macerata Opera Festival, mentre dal dicembre 2014 è direttore artistico della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, dove sta realizzando una profonda rivoluzione prospettica sul ruolo e le opere del compositore bergamasco, fondando due momenti festivalieri cittadini: la Donizetti Night a giugno e il festival Donizetti Opera in autunno, in cui vengono eseguiti i lavori più rari del musicista.
Quali sono le difficoltà maggiori che vedi per un ritorno alla normalità per la lirica?
Mi sembra che siano legate essenzialmente alla possibilità di ritornare alla vita normale, temo che finché non sarà trovato un vaccino non potremo ritornare alla vita a cui noi, animali sociali, siamo avvezzi, e quindi all’Opera.
Quali, secondo te, le strategie che potrebbero essere messe in atto per una programmazione in qualche modo fattibile? Hai già in mente qualcosa per Bergamo?
Da un lato mi sembra evidente che ci debba essere estrema malleabilità. Sono assolutamente d’accordo con la direttrice di Salisburgo che fondamentalmente ha detto: “Ad agosto qualcosa faremo, non so esattamente cosa. Ma continuate a credere in noi”.
Anche sul nostro fronte è essenziale in questo momento, come del resto hanno fatto in tanti, valorizzare il web, non semplicemente come volontariato gratuito o scambi di opinione su Zoom, in cui tutti sembriamo essere in prigione, ma viceversa inventando format innovativi.
Per noi che dirigiamo un teatro è fondamentale anche salvaguardare la forza lavoro che avevamo in precedenza deciso di coinvolgere per le nostre iniziative, non solo cantanti, registi e orchestrali, ma tutta la grande forza lavoro che ci sta dietro.
Non ha un po’ ragione chi imputa alla lirica di essere un pozzo senza fondo dove si investe troppo senza tener conto della possibilità di risparmiare? Non si potrebbe, come accade in altri Paesi, semplificarla con allestimenti più agili, con molte più repliche, portandola all’aperto nei parchi o in altri contesti?
Certo, sono d’accordissimo; ma già devo dirti che, da quando si è capito che il periodo delle vacche grasse era finito, in molti con responsabilità hanno arginato il volume delle spese che venivano investite per la lirica, penalizzando magari quell’artigianato unico e fastoso che ci appartiene, ma favorendo nel contempo la possibilità di esportare l’opera in contesti meno paludati.
Tu sei stato uno dei fautori dello svecchiamento della lirica con regie controccorrente. Non è diventata adesso un poco una moda modernizzare a tutti i costi il Melodramma?
Io stesso non è detto che sempre mi muova in tal senso. Se parliamo di scene e costumi per me è una variabile assolutamente dipendente, quindi a seconda del titolo, del testo, del teatro in cui lavoro, del momento storico, cambio la scelta dell’ambientazione.
La modernità a cui mi piace pensare è la centralità dell’interprete come artista a tutto tondo, che si dedica alla narrazione della storia abbattendo gli steccati, squisitamente novecenteschi, del danzatore che balla, dell’attore che recita, del cantante che canta; insomma cerco di favorire un nuovo artista che si senta performer a tutto tondo.
Modernizzare è stato un modo per avvicinare nuovo pubblico? Quali altre strategie si potrebbero mettere in atto per avvicinare i giovani a questo mondo?
Non so se questo sia servito ad avvicinare nuovo pubblico, so solo che quel manierismo che all’inizio della mia carriera, negli anni ’90, era imperante, stava allontanando le nuove generazioni dall’opera lirica. La lirica comunque è in crisi, non è uno dei linguaggi centrali e riconosciuti nella nostra società, ma io ritengo che, nonostante questo, abbia tutte le carte in regola per esserlo.
Inoltre, come del resto è sempre stato, deve aggiornarsi nell’evoluzione dei linguaggi, pur restando fedele a sé stessa nella sua intima essenza: individui che raccontano storie, cantando.
In questo senso ci sono esempi bellissimi, trovo “Jesus Christ Superstar” un’opera perfetta a tutti gli effetti: c’è polifonia, c’è una perfetta drammaturgia musicale… Per cui auspico che, ricreando nuove composizioni, nuovi format, eliminando i muri novecenteschi tra i generi, la lirica prenda nuovo vigore. Ma sta già in parte accadendo, se penso ai rave dei Club di Berlino, dove mi piace andare passandovi una giornata intera, come accadeva nei teatro d’opera nel ‘700.
Come vedi la situazione della lirica oggi dal punto di vista degli interpreti? E’ vero che non ci sono più i cantanti di una volta?
Non rimpiango affatto il manierismo sedimentato a partire dal secondo dopoguerra: il divismo dei cantanti, dei direttori, aveva svilito l’opera in confronto a ciò che veniva raccontato. Ora vi è invece un’intesa nuova tra direttori, cantanti e registi.
Oggi abbiamo bisogno di artisti dotati di personalità… non a caso la cantante più inossidabile dei nostri tempi è Cecilia Bartoli, che non è certo una mannequin, ma possiede personalità, tecnica, urgenza di stare in scena, voglia di bruciare in palco. Tutto ciò è quello che deve avere l’interprete in scena.
Quale opera sceglieresti, e come la ambienteresti, tenendo conto delle suggestioni riguardanti il tempo sospeso che stiamo vivendo.
Mah, guarda, in realtà c’è già: l’“Elisir d’amore” di Donizetti! Oggi abbiamo proprio bisogno tutti di un elisir che curi le nostre pene d’amore solitario. Poi, pur essendo una farsa, è assai profetica: il protagonista Nemorino non viene certo corteggiato dalle ragazze del paese perché ha comprato dal falso intrigante Dulcamara un elisir, ma perché il suo vecchio zio, morto in solitudine, gli ha lasciato una cospicua eredità. E’ dunque con la morte di un anziano, con cui purtroppo anche oggi la pandemia ci ha abituato a convivere, che l’opera prende una svolta, coinvolgendo tutti e inducendo anche Adina ad innamorarsi del nostro protagonista.