G8 Project. A Genova la riflessione passa dal palco

Dati sensibili (photo: Federico Pitto)|Il vigneto (photo: Federico Pitto)
Dati sensibili (photo: Federico Pitto)|Il vigneto (photo: Federico Pitto)

Elaborare il passato con uno sguardo presente, orientato al futuro. Con questo intento il Teatro Nazionale di Genova ha dato avvio al “G8 Project” dal 9 al 30 ottobre scorso.
Un investimento importante per ritrovare la propria comunità a partire da uno degli eventi mondiali più laceranti che il capoluogo ligure abbia vissuto nell’epoca contemporanea.
Due le sale teatrali coinvolte, il Modena e il Chiesa, piazze molto diverse sia per collocazione urbana che per architettura, offerta e poetica. Nove gli spettacoli in debutto simultaneo per interrogarsi, raccogliere, rielaborare e restituire alla platea un ventennio, quello che ci separa dal G8, che sembra non aver ancora digerito molte delle tematiche irrisolte di quei tragici giorni.
La rassegna “Il mondo che abbiamo”, inserita nel progetto, ha chiesto di sviluppare il tema a drammaturghi, attori e registi non soltanto italiani ma anche russi, francesi, tedeschi, giapponesi, belgi, statunitensi, inglesi. Dopo una maratona che ha visto in scena, per il primo giorno, tutte le performance, le repliche sono state poi diluite nelle settimane a seguire conservando lo spirito di festival e vedendo quindi in cartellone, in una stessa giornata, più spettacoli ad orari differenti.

Fausto Paravidino, attore, autore e regista è stato protagonista di un testo dal titolo “Genova O1”, testo che aveva portato in giro per l’Europa le problematiche sociali ed economiche del G8 poco dopo la sua conclusione.
In “Genova 21”, due decenni dopo, sul palcoscenico del Modena, sembra che nulla sia cambiato. I sei protagonisti, ormai ultra quarantenni, possono “permettersi” di dire di più. Fanno i nomi e proiettano (seppur caricaturati) i volti di molti responsabili dell’epoca, oggi in pensione o a fine carriera. Il loro dialogo con il pubblico non inizia e non si conclude ma cerca, riuscendoci in piccola parte, una risposta al chi siamo oggi in relazione a quello ieri così complesso. La soluzione, facilmente intuibile fin da subito, non arriva e lo spaesamento è imbarazzante e totale.
La performance è frutto di incontri (pubblici e non) rispetto ai quali si pone come “diario del presente” e restituisce la nostalgia di un passato che non sarà più, insieme a un’idea di società perseguita e totalmente disattesa.
La scena è estremamente scarna e rispecchia un ipotetico studio televisivo di un qualsiasi programma di approfondimento, all’interno del quale vari opinionisti propongono tesi, interrogatori e soluzioni aiutati da supporti audiovisivi ingigantiti sullo sfondo.
Al termine il pubblico fatica ad applaudire (non cogliendone la conclusione) confermando, ancora una volta, l’ipotesi iniziale di smarrimento che “Genova 21” vuole evidenziare, riuscendoci.

Quasi opposta la declinazione del tema di Nathalie Fillion, prolifica regista francese, che contribuisce alla rassegna con “In situ – Réverie del secolo 21” e porta lo spettatore all’interno di un sogno che gioca di continuo con scontri frontali tra visioni e frammenti di tempo e spazio. Da un lato c’è un classicissimo e buffo Cristoforo Colombo, vestito da rievocazione, che si aggira per il teatro scoprendo, con grande stupore, il nuovo mondo contemporaneo, molto diverso rispetto a quello lasciato secoli fa. Dall’altro una dea fantasma o spirito del teatro, che attraversa le dimensioni e cura le anime con un canto soave. Ma i veri protagonisti (forse) sono un giovane e sua madre, uomini del nostro tempo, alla spasmodica ricerca di un senso, di una strada da seguire tra le mille proposte.
In mezzo c’è il pubblico, alle prese con un interrogatorio continuo e costante per capire dove si svolge il plot. Difficilissimo ed affascinante il disbrigo della matassa, probabilmente impossibile, perché lo spettacolo rimbalza con estrema disinvoltura tra i sogni e le ambientazioni che tutti i personaggi abitano, spesso contemporaneamente.
La scena è scarna e focalizzata su alcuni elementi cardine, una porta che si apre e si chiude fragorosamente, un letto di ferro, alcune sedute. La precisione degli attori e la particolarità drammaturgica contribuiscono a rendere totale l’incertezza, rendendo l’incubo comune.

“Dati sensibili:New Constructive Ethics” è invece la messa in scena di un esperimento ad opera di Teodoro Bonci del Bene che, a sua volta, si spinge in un’ulteriore sperimentazione sul testo di uno degli autori russi più rappresentati oggi in Europa, Ivan Vyrypaev.
Un’importante azienda, la New Constructive Ethics, attiva un sondaggio all’interno del quale una biologa, una psicologa e un neurobiologo rispondono alle domande di un intervistatore.
La messinscena di Bonci del Bene porta al pubblico un monologo in cui l’attore, seduto su uno sgabello con a fianco due amplificatori, riporta i dialoghi di chi pone i quesiti e di chi risponde.
Non opera alcun tipo di camuffamento per distinguere i personaggi, ma la sua voce viene riprodotta nella cassa di destra o di sinistra a seconda che si si tratti di uno o dell’altro. Il pubblico individua chi sta parlando anche grazie ad una luce che si illumina sul dispositivo attivo in quel momento.
Un’operazione semplice a vedersi, molto meno a farsi, un po’ faticosa da seguire soprattutto a causa della profondità e della complessità delle tematiche trattate dall’intervistatore. I tre interrogati, obbligati a rispondere per il lauto compenso pattuito, sono affermati professionisti della mente e del corpo eppure tentennano, si contraddicono, espongono involontariamente tratti di crudeltà totale avvalorando la tesi del regista, attore e traduttore del testo, secondo il quale l’individuo da solo non potrà mai sconfiggere il male del pianeta.

Meravigliosamente politico e poetico è poi l’intento esplicito di Toshiro Suzue, noto autore giapponese che ha dato vita a “Il vigneto” attraverso un contatto continuo con l’Italia e con la regista Thaiz Bozano.
In scena quattro donne si trovano a combattere una forza sconosciuta che le costringe a chiudere il vigneto dove lavorano, senza poter contare su alcun tipo di futuro. L’importanza dell’individuo come elemento sociale è quindi spazzato via da una globalizzazione che le protagoniste non riescono né a percepire né a vedere né tantomeno a combattere.
Sullo sfondo del magazzino dove è ambientato il racconto, una grande finestra squadrata riproduce fronde che cambiano colore con il procedere dell’azione e il trascorrere ripetuto delle stagioni. I sensi di colpa per l’essere in gravidanza di alcune, la rabbia per la rinuncia al progetto di una vita per altre, fa da filo rosso e conduce al pressoché totale annullamento del singolo a favore di un collettivo allargato, che non lo riguarda ma lo schiaccia senza riserve.

Il vigneto (photo: Federico Pitto)
Il vigneto (photo: Federico Pitto)

Per concludere le performance a cui abbiamo assistito, “Basta!” ci conduce in un mondo ancora diverso. Wendy MacLeod ci porta nei teatri di rivista anni Cinquanta, o anche nelle sitcom televisive americane con le risate preregistrate ed inserite ad hoc al termine di ogni battuta. La forma scelta è quella dell’effimero, del superficiale (per non dire del banale) che Kiara Pipino, regista e traduttrice, rispetta totalmente.
In scena ci sono personaggi come il poliziotto ingenuo, la moglie svampita, il funzionario che ci prova con la giovane segretaria. I colori sgargianti dei vestiti, le acconciature e la fisicità spinta degli interpreti concorre a definire un quadro per nulla divertente ma semmai inquietante. Si finge di scherzare, ad esempio, su accanimenti fisici nei confronti dei manifestanti, mentre le già citate risatine tornano implacabili. Talvolta il pacchetto è confezionato così bene che si finisce per ridere davvero, sentendosi poi in colpa. Un politicamente scorretto e pervasivo che, con la scusa rassicurante di un universo da divano, finisce per far riflettere davvero sui fatti tristemente noti del 2001.

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