A cent’anni dall’omicidio, Elena Cotugno e Gianpiero Borgia omaggiano il deputato socialista
«Oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente (hanno questo coraggio, che io volentieri riconosco) che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, violenze, incendi, e li eseguono non appena avvenga, o si pretesti che avvenga, alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. È una perfetta organizzazione della giustizia privata».
Due discorsi di Giacomo Matteotti alla Camera dei Deputati, quello del 31 gennaio del 1921 e quello del 30 maggio 1924, gettarono la maschera sulla vera natura del fascismo. Nel primo, di cui abbiamo riportato uno stralcio, il deputato socialista di Fratta Polesine dimostrò di aver colto con lungimiranza la deriva squadrista verso cui sarebbe precipitato, in capo a due anni, il nostro Paese.
Il secondo discorso prefigurava la svolta totalitaria del partito guidato da Mussolini, con la cancellazione delle istituzioni democratiche e la successiva imposizione delle leggi fascistissime.
I due discorsi sono al centro di “Giacomo”, spettacolo prodotto da Teatro dei Borgia con il sostegno della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il monologo, progettato e diretto da Gianpiero Borgia ed Elena Cotugno, quest’ultima anche interprete, ha raggiunto il Teatro Franco Parenti di Milano proprio lo scorso 30 maggio, nel giorno del centenario.
Il palco della Sala Grande di via Pier Lombardo è spoglio, grezzo. È un’aula «sorda e grigia», per usare le parole infauste di Mussolini nel famigerato “discorso del bivacco”. In scena, un trabattello e degli scranni ricoperti di cellophane. Poi una pila di sedili rossi.
Un senso di smembramento e polveroso abbandono. Nessun intento mimetico da parte dell’attrice, labbra rosse, rosso sugli occhi, due strisce verdi verticali sotto gli occhi, giacca nera su abito da cerimonia scuro, ed è l’unico segno che rimanda – in modo mai didascalico – al personaggio Matteotti. Il volto dell’attrice è un garofano in lacrime, la reliquia di un’Italia violentata e tradita.
Elena Cotugno pronuncia il discorso del 1921 dal relitto di uno scranno parlamentare. Biascica parole dure, tenaci, taglienti. Attinge vocaboli e valori da un tempo remoto, irrimediabilmente perduto.
L’attrice guarda fisso davanti a sé. È uno sguardo smarrito nel vuoto. Recita come un automa, accompagnando le frasi con gesti solenni. Elena Cotugno è l’anima di Matteotti, in un parlamento ancora libero e democratico – peraltro a maggioranza socialista – che libertà e democrazia va perdendo. È il profetico De Profundis dell’Italia liberale.
Le parole sono posate, aperte come le braccia e le spalle della protagonista. Un profluvio che dal palco esonda sullo spettatore, solidale con il Matteotti che denuncia le violenze squadriste, le collusioni di stampa e agrari, le acquiescenze del presidente del Consiglio Giolitti, che rimase silenzioso e inerte. Poche distorsioni nell’attrice in quel petto, nelle corde vocali, in quei movimenti da direttrice d’orchestra pervasi da un demone traballante. Un discorso lungo da masticare sulla scena, lunghissimo da metabolizzare in platea. Ma che prepara l’effetto sorpresa della seconda parte.
Si avvicina al trabattello l’attrice, dopo essersi liberata della giacca. Volano tre anni, come bere altrettanti bicchieri d’acqua. Canta, l’attrice. Ingurgita i bicchieri mentre canta con un filo sottile di voce. Per passare dall’“Inno dei lavoratori” di Filippo Turati a “Giovinezza”, inno fascista, attraverso “Nessun dorma” di Puccini.
È un attimo. “Nessun dorma”. Quell’Italia dormì. Dormirono le istituzioni. Sprofondarono nell’oblio. Le buone intenzioni e il coraggio annegarono nell’olio di ricino, che qui sul palco straripa da una bocca borbottante parole sfibrate, come quando si naufraga nel mare in tempesta.
Esattamente cent’anni fa Matteotti denunciò il clima intimidatorio in cui si erano svolte le elezioni politiche che avevano consegnato la nazione a un parlamento per più di due terzi fascista. Ripetute violenze avevano impedito la campagna elettorale delle forze democratiche. I risultati erano stati inficiati da brogli, minacce, aggressioni.
La denuncia del 30 maggio 1924 costò la vita a Matteotti, «ucciso da squadristi fascisti», come ha ricordato giorni fa la presidente Giorgia Meloni. Parole importanti ma ancora insufficienti, perché sembrano rimuovere il ruolo esercitato da Mussolini in quell’efferato delitto, avvenuto il 10 giugno 1924.
Nel discorso del 30 maggio la recitazione di Elena Cotugno si trasforma. Nessun tono stentoreo o solenne, piuttosto il flusso di coscienza di una sciamana. Cotugno spiritata, trasbordata. Cotugno medium che rievoca l’atmosfera turbolenta della Camera in quel giorno. Brandelli di vocaboli. L’attrice si agita. Incarna ogni singola parola del deputato socialista: impavido, eppure già un morto deambulante. Eccezionale il gioco di luci e ombre, che ne taglia a metà il volto mentre pronuncia parole di fuoco e a metà tra la vita e la morte.
Le ombre di quel giorno pervadono la scena, si materializzano dai banchi della maggioranza con toni veementi, violenti, minacciosi, agitati, beffardi. Un coro di voci fasciste interruppe continuamente quel giorno Matteotti. Il suo discorso durò un tempo infinito.
Cotugno insegue quei fantasmi. Li interiorizza. Se ne lascia pervadere e li restituisce con il linguaggio del corpo. Li ripropone attraverso una narrazione che perde consistenza sul piano vocale e diventa performance visiva, danza sbilenca. Ci sono le interruzioni, le provocazioni; il ruolo ambiguo di Alfredo Rocco, che presiedeva quel giorno l’assemblea; l’insolenza e minacce sferzanti del deputato fascista Roberto Farinacci.
L’attrice a tutto dà forma. Invade la scena con avanzate e ritirate, in un andirivieni irrituale, sbigottito, deforme, che lascia intontiti gli spettatori. Li sprofonda in un deliquio collettivo.
Chiude lasciando sul volto una riga di sangue. Che odora come quel 10 giugno. E come in quel 10 giugno, grida ancora Giustizia!
Stasera in scena (alle 20,45) nel Salone della Cooperazione “G. Matteotti” di Cinisello Balsamo (MI) e il 10 giugno a Roma, al Teatro Argentina.
GIACOMO (Matteotti)
Un intervento d’arte drammatica in ambito politico
progetto Elena Cotugno e Gianpiero Borgia
testi di Giacomo Matteotti con interruzioni d’Aula
drammaturgia di Elena Cotugno e Gianpiero Borgia dai verbali delle assemblee parlamentari del 31 Gennaio 1921 e del 30 Maggio 1924
con Elena Cotugno
ideazione, coaching, regia e luci Gianpiero Borgia
artigiano dello spazio scenico Filippo Sarcinelli
costumi Giuseppe Avallone
coproduzione TB e Artisti Associati Gorizia
spettacolo prodotto con il sostegno della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Struttura di missione anniversari nazionali ed eventi sportivi nazionali e internazionali nell’ambito dei progetti per iniziative connesse alla celebrazione della figura di Giacomo Matteotti
in collaborazione con Milano è memoria – Comune di Milano,
con il supporto di Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Fondazione Vincenzo Casillo
con il patrocinio di Fondazione di Studi Storici Filippo Turati Onlus, Fondazione Giacomo Matteotti, Comune di Fratta Polesine
durata: 1h
applausi del pubblico: 3’ 20”
Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 30 maggio 2024