Al CAMeC la mostra che ripercorre i 40 anni di attività di Verde. Fino al 15 gennaio l’allestimento dedicato al teatro
Videoartivista o tecnoartivista, pionere del videoteatro in Italia, “Giacomo era il dialogo inter-artistico in persona” lo descrive il poeta e performer Lello Voce; ma sono tante le definizioni che circondano la figura – e l’attività – di Giacomo Verde, che la rassegna ospitata dal Centro di arte moderna e contemporanea CAMeC di La Spezia (“Liberare arte da artisti” visitabile fino al 15 gennaio, ghost curator Luca Fani), con una serie nutrita di collaborazioni e omaggi, ha offerto in questi mesi per ricordare la figura di uno sperimentatore delle arti digitali e delle scene scomparso troppo presto, nel 2020, a 64 anni.
La mostra, inaugurata il 25 giugno 2022, ha visto la collaborazione delle Università di Milano e Pisa, ma anche delle Accademie di Belle Arti di Brera, Carrara e Bari, per un allestimento che si è modificato nel corso dei mesi, “in divenire” e vivo come il suo protagonista, e per questo con tre focus tematici che si sono susseguiti e hanno approfondito altrettanti aspetti del percorso di Verde: l’artivismo, l’arte digitale e il teatro. Noi lo abbiamo visitato a inizio dicembre, nel suo capitolo finale, dedicato al teatro tecnologico, con il nuovo riallestimento a cura di Anna Maria Monteverdi.
Nato in provincia di Napoli, formatosi con il teatro di strada negli anni ’70, innumerevoli sono state le collaborazioni e i linguaggi approcciati da Verde nel corso del suo percorso in giro per l’Italia, quasi sempre fuori dai circuiti ufficiali, una militanza artistica impegnata e multiforme fra teatro, performance e tecnologia.
“Attivista democratico nella rete delle arti e dei linguaggi tecnologici, cercatore di eu-topie (nuovi mondi, più felici, in cui vivere e lavorare)”: così, ad esempio, lo definiva Marco Maria Gazzano nel saggio “TeleArti. L’opera di Giacomo Verde” (in “Giacomo Verde videoartivista”, a cura di Silvana Vassallo, edizione ETS, 2018, prima opera monografica a lui dedicata).
Riduttivo raccogliere in poche parole l’ambito di interesse sperimentativo di Verde, rivolto verso il futuro ma con salde radici, sfaccettate, poliedriche come i suoi interessi, in continua e plurale evoluzione, per un artista la cui “sfida creativa più difficile diventa[va, ndr] sempre un’occasione di indagine e di nuove sintesi sperimentali: cominciando dal titolo, che Verde ricorda[va, ndr] non essere mai casuale” (Francesca Maccarone, “Performance audio-visive digitali”).
Cerca di sintetizzare alcune di queste traiettorie, per la mostra allestita nell’interessante spazio espositivo del CAMeC, la studiosa di media art Sandra Lischi, elencando una serie di linee e di linguaggi attraversati e sviluppati da Verde in quarant’anni di attività: dall’invenzione e dalla sperimentazione del teleracconto a “grafica, scultura, videopittura, musica, il teatro sempre filo conduttore, fino agli ologrammi, all’intelligenza artificiale e alle sperimentazioni con il telefono cellulare”, unendo a tutto questo il suo interesse per l’interazione, la formazione e i percorsi laboratoriali.
Su tutto uno sguardo acuto, a tratti irriverente ed ironico, sul nostro contemporaneo, in evoluzione anche in senso tragico (ricordiamo il video del 2001 “Solo limoni” sul G8 di Genova). O ancora, precedente di alcuni anni, la sua “Azione di riciclaggio tv”, ben presente nella mostra spezzina, verso uno degli oggetti simbolo della nostra società pre-smartphone, un prodotto universale presente in quasi ogni casa e in grado di plasmare, nel corso dei decenni, identità, stili di vita e relazioni sociali.
“A mettere mano. Azione di riciclaggio tv” si presentava quindi come una riflessione che si trasforma in azione, della cui necessità – nel 1998 – lo stesso Verde scriveva in questi termini: “La televisione è un oggetto intoccabile”, che illude i telespettatori di fare delle esperienze “che in realtà non avvengono. L’unica esperienza reale è quella della passività. La vista è uno dei sensi più facilmente ingannabile. […] In un momento dominato sempre più dall’intoccabile immaterialità delle immagini si rende necessario fare esperienze tattili e di dialogo tra il vedere e il toccare. […] Rompere televisori per riciclarne i pezzi in piccole opere creative, che potranno essere continuamente ri-toccate, non è un gesto eroico e risolutivo (troppo complesso è, per fortuna, il mondo) ma un gesto in più a disposizione per fare un’esperienza sdrammatizzante e tattile”.
Nel 2015, ormai di casa a Lucca, aveva fondato una rivista teatrale web, “Lo sguardo di Arlecchino”.
Nel 2019 la sua ultima performance, “Piccolo diario dei malanni”, realizzata in collaborazione con Aldes, che avevamo ricordato in occasione del nostro Endgame.
La voglia di non prendersi mai troppo sul serio, semmai di liberarsi e di liberare arte e linguaggi attraverso una sperimentazione continua, senza puntare tutto su copyright e autorialità, in un’accezione controcorrente rispetto a quanto ci circonda.
Verde ci ha lasciato un messaggio di militanza artistica consapevole che non potrebbe essere più attuale, in questa epoca di decadenza: la dimensione etica dell’arte è inscindibile da quella estetica. Sopra ad ogni sperimentazione e teoria svettano la valenza sociale e politica che l’arte e il manufatto artistico, così come la tecnologia, devono tornare ad avere per cercare di creare una cittadinanza attiva e valorizzare le diversità. Pena la definitiva inutilità dell’arte stessa.
Vi lasciamo ad alcune immagini della mostra.
Clicca qui per scaricare il PDF di questo articolo
di Anna Maria Monteverdi, Flavia Dalila D'Amico, Vincenzo Sansone
Milano University Press, 2022
Acquista su IBS