Produzione del milanese Atir Teatro guidato da Serena Sinigaglia, “S(legati)” mette in scena ciò che accadde nel 1985 agli alpinisti inglesi Joe Simpson e Simon Yates, una storia raccontata dallo stesso Yates nel libro “Touching the void” pubblicato nel ’98, e tradotto poi in italiano come “La morte sospesa” (diventato anche un film nel 2003).
Eppure “Toccando il vuoto” rende davvero meglio l’idea.
Dopo aver raggiunto dalla parete ovest, primi al mondo, la cima del Siula Grande (quota 6536 metri), nelle Ande peruviane, Simpson e Yates iniziano la discesa. Dovrebbe essere la fase più semplice, ma tutto si trasformerà in tragedia. Simpson cade in un crepaccio e si rompe una gamba. Sono a 5800 metri d’altitudine. Yates, dopo aver cercato faticosamente di portarlo al campo base, prenderà una decisione terribile per riuscire a salvare almeno la propria vita: tagliare la corda che li lega insieme, lasciando l’amico al suo destino.
In scena Jacopo Bicocchi e Mattia Fabris ci raccontano questa storia. Ma non è solo questo, non è solo il racconto di quei giorni e momenti orribili, perché in scena i due attori riescono davvero a portare noi spettatori a 6.000 metri, facendoci provare il freddo, la stanchezza, la paura, la disperazione…
L’avrò già detto in altre occasioni che amo il teatro di narrazione, lo amo come da bambini si amano i racconti e si adorano le “storie”. A volte, in teatro, sono difficili da decifrare e ci obbligano a viaggiare da soli (ed è già una fortuna); altre, ultimamente mi è capitato un po’ troppo spesso, possono rivelarsi storie che non varrebbero la pena di essere raccontate.
Ma quando di fronte a noi le parole diventano immagini ed emozioni allora c’è da riconciliarsi con la scena, permettendosi (con soddisfazione) di provare fatica, rabbia e dolore.
Perché in “S(legati)” non c’è solo la storia di Joe e Simon; non è solo, come riporta il foglio di sala, la metafora della relazioni. C’è ben altro. Ci sono le domande che ci portiamo dietro ogni giorno, a qualsiasi altitudine: dove dobbiamo spingerci per trovare la felicità? Cosa dobbiamo ancora scalare? E fino a che punto?
Torniamo allora alla scena. Amici e amanti della montagna loro stessi, Jacopo e Mattia, attori di Atir (in genere un buon marchio di fabbrica), giocano il loro ruolo senza scenografie: stavolta non servono. A ricordarci che in teatro possono bastare corpi e voci, se li si sanno usare.
Unico oggetto è allora una corda. Quella corda che lega i protagonisti e li slegherà. Per gli alpinisti la corda non è solo una parte importante dell’equipaggiamento, è soprattutto salvezza. Fili di nylon a cui si appende la propria vita. E’ il simbolo della fiducia estrema: mettere la propria esistenza nelle mani di qualcun altro: chi tiene l’altro capo della corda.
Si parte, guardando quella parete inviolata e ripida, scrutando il cielo per capire se il tempo terrà.
Saliamo in quota, viviamo la scalata faticosa, l’avvicinarsi alla cima e finalmente la gioia di essere arrivati. Una gioia che sappiamo breve, perché quando si arriva già si sta pensando alla prossima vetta. Così come ogni successo della vita ci fa star bene solo per qualche tempo, mentre già pensiamo al dopo, alla prossima sfida.
Inizia la discesa e gli attori ci immergono nel dramma dei due alpinisti. E’ un senso di nausea profonda a emergere al racconto della gamba rotta: a 6000 metri una gamba rotta significa la morte.
I pensieri che scorrono nella mente dei protagonisti ci vengo riportati come se ormai fossero lontani, ognuno preso a cercare di salvare la propria pelle.
E poi il taglio. Quel taglio della corda che in montagna non si dovrebbe mai fare, ma che in realtà è l’unica via di salvezza. Un taglio che segnerà per sempre le loro vite. Quelle vite che, meraviglia, si ritroveranno, ma sicuramente non saranno più le stesse. Si ritroveranno ma diversi, segnati dalla paura di non essere stati all’altezza, di aver deluso, di aver tradito.
A luci accese, oltre ai lunghi applausi, noto occhi lucidi. La magia del teatro ogni tanto riappare, Per chi non si… Rassegna di teatro.
S(LEGATI)
di e con: Jacopo Bicocchi e Mattia Fabris
musiche: Sandra Zoccolan
produzione: Atir
Visto a Torino, Cap10100, il 3 aprile 2014
Continuo il mio commento precedente … definirei lo spettacolo addirittura a rischio se ci fossero persone deboli di cuore. Finora nessuno era riuscito ad incollarmi allo sgabello per tutto il tempo, come tutti non riuscivo a smettere di applaudire e trattenere l’emozione che leggevo anche negli occhi di Mattia e Jacopo ai quali auguro enorme successo, perché non sono bravi, ma ULTRA ! Complimenti ragazzi e scusate ma dal celluare a questa altezza il 3G tira la corda anche a me. 🙂 Ciao e grazie per la splendida serata.
Lo spettacolo del 1 agosto 2015 a Prato Valentino sopra Teglio (SO), mi ha lasciato veramente sorpresa.
Non pensavo che il teatro potesse essere così avvincente , oserei dire travolgente
braviiii…..mi avette fatto soffrire e gioire davvero…
bravi, anzi bravissimi. Qs.sera nelle scuderie del castello di Abbiategrasso, molto apprezzata la storia che ci avete fatto vivere, in una tensione che non è mai calata. emozioni travolgenti che hanno evocato i vissuti di ciascuno: affetti, paure,tentazioni, egoismi, istinto di conservazione, sensi di colpa.. Il messaggio molto positivo di Jo/Mattia di non mollare anche quando tutto sembra perduto.. Amicizia come condivisione. Non una replica ma l’hic et nunc dell’opera d’arte, un miracolo che nel teatro ogni volta si ripete, non è mai la stessa storia, non è mai lo stesso luogo nè lo stesso pubblico, ma dinamiche ed emozioni sono le stesse x tutti… Grazie! enrica