Thomas Ostermeier ha presentato in prima nazionale alla Biennale di Venezia ‘Hamlet’. La recensione
Essere o non essere. Inizia così. Con Amleto che accende una videocamera e recita il celebre monologo.
Poi si illumina la scena, pensata da Jan Pappelbaum per questo “Hamlet” di Thomas Ostermeier (prod. Schaubühne 2008), presentato lunedì a Venezia in apertura della 41^ Biennale Teatro.
Una scena divisa in due: davanti uno sterrato, dove la vicenda ha inizio con una efficace e tragicomica cerimonia di sepoltura del padre di Amleto da poco assassinato; dietro, una pedana con la tenda, che avanza e retrocede, come un polmone d’acciaio, ad ampliare e restringere, a creare spazio pubblico e spazio privato, dimensione sentimentale e momento sociale.
Mentre un becchino tiene una pompa d’acqua e genera una pioggia artificiale, con Gertrude e Claudio che si stringono sotto un ombrello, la bara viene interrata come in una comica muta di inizio secolo, e Amleto si tuffa di faccia sul cumulo di terra fresca, quasi ad interrarsi nell’oltretomba alla ricerca del padre.
Poi ancora un frammento video. Che diventerà colonna video dell’intera recita. Come nel finale di “Blow up”, in un’esplosione di frammenti indecifrabili, o come in una lamentosa pioggia di foglie d’acero in un autunno giapponese di Kitano.
E’ in questa non forma il leitmotiv iconico che viene proiettato su un megascreen friabile, emblema della celestiale falsità del teatro, capace però di ricreare il sensibile e il vissuto: uno schermo dorato, in realtà un’enorme tenda metallica che funziona anche da separé concettuale, sipario mobile per frangere e inglobare mondi emotivi dai confini labili e semoventi.
Gli interpreti indossano abiti contemporanei, e salvo qualche incursione nell’immaginario transgender, il codice dei costumi proposto da Nina Wetzel rimane coerente per tutto il tempo. Più che il travestitismo è la molteplicità identitaria la questione centrale dello studio condotto da Ostermeier per questa sua lettura di Amleto: a parte il principe di Danimarca (un Lars Eidinger formato mattatore), che è sempre e solo se stesso, a ciascun interprete è affidata una duplicità di personaggio che in alcuni casi è interessante lettura del doppio che in ogni individuo risiede.
Così Urs Jucker interpreta sia Claudius che il fantasma, vittima e carnefice; Judith Rosmair è Gertrud e Ophelia, il femminile dell’innocenza soccombente e della malizia fragile. Ma questo vale anche per gli altri, tutti portati dal lavoro registico a vivere la doppiezza come parte di un unicum: Robert Beyer (Polonius e Osric), Sebastian Schwarz (Horatio e Guildenstern), Stefan Stern (Laertes e Rosencrantz).
E’ questo, insieme all’interessante apparato scenico, il fulcro di una lettura del classico shakespeariano che, dal punto di vista sostanziale, non presenta altre sfumature dirompenti: anzi, la pazzia del principe di Danimarca è raccontata in modo tradizionale, a tratti sul filo di una clownerie che non esita a cercare la complicità finanche urlata del pubblico, come nella scena in cui un Amleto in vena di eccessi richiama il crapulone dominus della politica italiana, invitando il pubblico a un barbarico yawp al grido di “We want bunga bunga!”.
A parte il cameo satirico, le scene in cui più forte si respira la capacità degli attori di improvvisare lasciano sentori di Brecht e rimandi costanti ad un duale psicologico che esalta la bipartizione spaziale.
Quello che più risulta riuscito è il dialogo altissimo fra la parte recitata e gli interventi video di Sebastien Dupouey che, a parte il leitmotiv di cui si parlava all’inizio, sono realizzati in presa diretta dagli attori che inquadrano se stessi, con un’icastica capacità di specificazione semantica.
Così il banchetto nuziale, realizzato in bicromia, grazie alla proiezione sulla tenda dorata, regala un effetto vintage da filmino amatoriale in super 8 anni Settanta, mentre altre scene, sempre in un bianco e nero seppiato dalla grande tenda metallica, sembrano riproposizioni perfette di sequenze del muto anni Trenta. Bellissima la sequenza video dell’annegamento di Ofelia, in cui l’effetto acqua è ottenuto con un telo di plastica e un overlap video.
Tutto è studiatissimo, la regia non lascia nessuna inquadratura al caso, mentre più indulgente è con l’istrionico Lars Eidinger a cui Ostermeier stesso, durante gli applausi a fine recita, cede in forma simbolica il Leone d’Oro appena consegnatogli.
L’attore quasi si schermisce, consapevole di come, nella sua interpretazione potente e prepotente, risieda la forza ma anche una debolezza della messa in scena. La regia indugia, infatti, nello scolpire una pazzia a cui, in onestà, non aggiunge nulla che non sia già visto o detto, tanto da lasciare la sensazione che qualcosa avrebbe potuto essere detto breviori forma, mondando così l’esito finale dal tratto più compiaciuto che nuoce all’articolazione concettuale.
In questo l’Hamlet di Ostermeier ha il sapore del grande allestimento (è stato coprodotto dai festival di Avignone e Atene, del resto) e paga un po’ dazio all’essenzialità, che invece dovrebbe essere sempre tenuta in suprema considerazione.
Hamlet
di William Shakespeare
regia: Thomas Ostermeier
con: Urs Jucker (Claudius, fantasma), Lars Eidinger (Hamlet), Judith Rosmair (Gertrud, Ophelia), Robert Beyer (Polonius, Osric), Sebastian Schwarz (Horatio, Guildenstern), Stefan Stern (Laertes, Rosencrantz)
scene: Jan Pappelbaum
costumi: NinaWetzel
musica: Nils Ostendorf
traduzione e drammaturgia: Marius von Mayenburg
video: Sebastien Dupouey
luci: Erich Schneider
produzione: Schaubühne Berlin
in coproduzione con: Hellenic Festival Atene e Festival d’Avignon
durata: 2h 50′
applausi del pubblico: 4′ 36”
Visto a Venezia, Teatro Goldoni, il 10 ottobre 2011
Prima italiana