L’Hamletas di Nekrosius: un classico immortale che torna a vivere

Eimuntas Nekrosius - Amleto
Eimuntas Nekrosius - Amleto
L’Amleto di Eimuntas Nekrosius (photo: teatrogrande.it)

È un super classico del teatro quello che, nella sua tournée lombarda, abbiamo visto in scena tre giorni fa al Teatro Grande di Brescia.

L’Hamletas di Nekrosius è forse uno degli spettacoli che ha segnato il fare scena in Europa negli ultimi quindici anni, e consacrato il successo del grande regista lituano. Torna ora in Italia per alcune (poche) date di grande rilievo, fra cui quella del 16 a Brescia di cui vi parliamo, e quelle del prossimo fine settimana al Franco Parenti di Milano.

L’attesa per il grande ritorno degli attori della compagnia Meno Fortas è notevole, un po’ perché è una squadra che, come nessun altra, riesce a tradurre il pensiero dell’artista che li dirige, e in secondo luogo perché, per converso, mai le regie con attori italiani sono arrivate agli altissimi livelli che hanno sancito la fama internazionale di Nekrosius.

Scorrono, infatti, nell’Hamletas i grandi temi delle regie del maestro, e per chi non aveva conosciuto il lavoro nella stagione teatrale del ‘97-’98, quando fu premiato in tutta Europa (in Italia con l’Ubu al miglior spettacolo straniero), è questa un’occasione imperdibile, a distanza di anni, per ricostruire ex post il percorso, le idee, l’agito scenico, partendo da uno degli esiti più alti.

Molti sono i sentimenti che vengono affidati agli straordinari interpreti di questo spettacolo, e in quasi tutti riconosciamo una potenza miserabile, quasi pasoliniana. Il dolore, ad esempio, è un dolore cieco, senza vie di sbocco, che annega in un palcoscenico per quasi tutto il tempo nella penombra, di cui non si legge il fondo e la cui profondità è affidata ai controluce sulle gocce di pioggia artificiale, che a lungo ricorrono nello spettacolo.

Se il primo atto è una sorta di ambiguo tragicomico prologo, in cui le figure vengono caricate fino al grottesco (Claudio uno zotico, Gertrude una donna senza personalità, Orazio un ragazzone ingenuo, Polonio un congiurato dai pensieri neri come lo sbuffo colorato sulla pelata dell’attore), il secondo è il capolavoro dark di Nekrosius, dove tanto limpida è l’acqua che scorre, quanto nera l’anima dei protagonisti.

Il regista sceglie a questo punto un percorso sui collegamenti familiari, di sangue, e alcune figure più estranee a questi legami biologici, di umore, liquidi, si perdono sullo sfondo, sembrando volutamente fuori fuoco. Rosencrantz e Guildenstern non ci sembra neanche di vederli, l’Orazio che in molti spettacoli è l’alter ego lucido di Amleto qui scompare dopo un primo atto in cui ha il sembiante del ragazzone; e il Polonio burattinaio trova più forza dopo la morte che in vita.
Le figure che emergono dal bassorilievo sono assai meno di quelle che contempla Shakespeare.

Come cronisti siamo nel dilemma se parlarne nel dettaglio, svelando, a chi non vedrà, almeno parte di queste altezze, oppure tacerle, per non togliere a chi potrà vedere l’immenso coinvolgimento dei sensi, di cui il maestro è stato capace in quegli anni così ispirati, che già lo portarono ad alcuni confronti col Bardo di inarrivabile profondità.

Ci si rende poi conto che raccontare sarebbe lunghissimo, e quindi lasciamo ai curiosi di cercare sui canali video qualche piccola sequenza dello spettacolo. Agli altri denunciamo parimenti l’impossibilità di una descrizione che dovrebbe comprendere troppe cose, troppi segni.
Per chi è abituato al linguaggio registico dell’artista lituano, si ritrova una naturalità, una capacità povera di costruire gesti e simboli attraverso oggetti poveri, in grado, per mezzo della drammaturgia scenica, di incorporare un distillato poetico altissimo: il monologo dell’Essere o non essere, recitato sotto un candelabro di cristalli di ghiaccio il cui gocciolare frusta prima la solitudine di Amleto, poi quella di Ofelia e infine quella dello stesso Claudio, è patrimonio immateriale del teatro degli ultimi trent’anni.

Dal buio emergono le distanti solitudini di questi esseri umani, accomunati a lupi, bestie a due zampe, come pare suggerire una pelliccia appesa e stretta con una cinta al fianco.
La chiusa di questo atto drammatico e buio, fra latrati di lupi e voci spettrali Claudio – uomo bestiale che, con una catena, batte un’immensa ruota dentata incombente sulla scena – riporta al primate di Kubrick nella celebre scena dell’osso.

E’ l’animale che in ognuno alberga, il simile che risveglia il suo simile, che il regista cerca nell’anima dello spettatore. In questo finale d’atto ritroviamo la compiutezza di decine di finali cui in questi anni abbiamo assistito: ad esempio il finale de “La scimia” di Emma Dante. E anche questo collegamento riporta ad un’animalità (e il legame di famiglia è quanto di più simile al branco per l’uomo) cui Nekrosius riesce a dar corpo (e che, per converso, ancor più rammarica per quell’Inferno recente, così meno profondo e poco abissale).

Siamo tanto emozionati da questa compattezza di teatrale letterarietà che scriviamo questi appunti negli intervalli fra gli atti, con una sete di comunicare una potenza che di rado si vive nel pallido teatro d’oggi: è l’inconfondibile sapore del titanico perdersi dell’umanità, quello della “Tragedia Endogonidia” della Socìetas Raffaello Sanzio, per capirci, o del “Re Lear” di Strehler, e di pochissimi altri grandi capolavori del teatro contemporaneo.

Se dovessimo scegliere un frammento, un’immagine, non potremmo che andare al finale, in cui si incastona  una delle visioni più alte e al contempo rare nel simbolismo sul rapporto genitoriale.

Qui, con una trovata di purezza cristallina, il fantasma del padre piange il corpo del figlio dopo il duello, quasi a sentire nel dramma della sua morte traccia dell’istigazione iniziale alla vendetta. Così l’innaturale pianto del vecchio sul giovane riporta la mente a quei rarissimi episodi letterari in cui il tema ricorre, e mentre il respiro dello spettatore si affanna, inciampando nella commozione, tornano le grandiose immagini del XXIV canto dell’Iliade, quando il vecchio Priamo piange il corpo di Ettore dopo aver mosso a pietà e commozione perfino Achille, che poche ore prima lo aveva ucciso e dilaniato.

Disse così, e gli fece nascere brama di piangere il padre:
allora gli prese la mano e scostò piano il vecchio;
entrambi pensavano e uno piangeva Ettore massacratore
a lungo, rannicchiandosi ai piedi d’Achille,
ma Achille piangeva il padre, e ogni tanto
anche Patroclo; s’alzava per la dimora quel pianto […].

Così anche noi usciamo da teatro, vinti e avvinti dall’assoluto sentimento dell’umano di questi imperdibili Hamletas, figlio e padre, legati da una maledizione e insieme anche da una potenza sacra, quasi religiosa, come in quel Padre nostro che ad un certo punto finisce sulle labbra di uno degli attori.
Certamente non a caso. Imperdibile.

Hamletas
di William Shakespeare
regia: Eimuntas Nekrosius
con: Vytautas Rumsas, Dalia Storyk, Andrius Mamontovas, Vidas Petkevicius, Simonas Dovidauskas, Viktorija Kuodyte, Kestutis Jakstas, Povilas Budrys, Algirdas Dainavicius, Vaidas Vilius, Margarita Ziemelyte – Musicista – Tadas Sumskas
produzione: Compagnia Meno Fortas – Vilnius (Lituania) con la co-produzione: Hebbel Theater (Berlino), La Bâtie (Ginevra), Zürcher Theater Spektakel (Zurigo), Teatro Festival Parma e Aldo Miguel Grompone-Roma
Premio Ubu 1998 come miglior spettacolo straniero in Italia – Premio Unione Europea dei Teatri – Premio Taormina Arte – Premio Maschera d’Oro a Mosca
durata: 3h 15′ più due brevi intervalli (1° atto 80’ – 2° atto 60’ – 3° atto 50’)
applausi del pubblico: 6’ 48’’

Visto a Brescia, Teatro Grande, il 16 ottobre 2012

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