Si può arrivare a toccare il cielo anche in un campo di concentramento nazista.
È un cielo finto, come finti sono i personaggi che vivono sotto quel cielo. Ma le sofferenze sono vere, e le vie del cielo finiscono verso una barbarie senza scampo.
“Himmelweg” (via del cielo in tedesco) è la storia della città di Terezin, nell’odierna Repubblica Ceca, che durante la seconda guerra mondiale i nazisti usarono come città ghetto, come campo di concentramento, ma anche come sede di un set cinematografico: nel giugno del ’44 viene dato il ciak di inizio alla fiction più tragicamente riuscita della storia del cinema. Una fiction che vede come protagonisti un centinaio di internati ebrei sotto la meticolosa regia della follia genocida del regime nazista. Come pubblico, l’ingenuo operato della Croce Rossa Internazionale.
La trama è semplice ma indovinata: un ispettore della Croce Rossa viene inviato nel campo per verificare le condizioni di vita dei prigionieri; è quindi necessario, per i nazisti, che la città si trasformi in una sorta di esilio dorato, dove gli ospiti devono apparire come i felici abitanti di un luogo sereno, in cui l’impeccabile organizzazione teutonica ha predisposto ogni comfort per i propri residenti. L’operazione riesce in pieno, e il rapporto ufficiale parlerà di una qualità di permanenza soddisfacente, adatta, più che dignitosa.
A trent’anni dal debutto de “L’istruttoria” di Peter Weiss, Gigi Dall’Aglio torna ad affrontare il tema dell’Olocausto, allestendo il testo di Juan Mayorga, drammaturgo spagnolo tra i più ispirati della scena contemporanea.
Realtà e finzione si coniugano in un perverso meccanismo di ricostruzione del vissuto, con gli internati costretti a reinterpretare sé stessi in forma di spettri di un’esistenza altra, inventata da un copione redatto a tavolino dal comandante del campo, aguzzino reale dalla concreta volontà di sopraffazione.
È un’operazione meta-teatrale insomma, che tenta di rilegare le atrocità dei campi di sterminio in una dimensione onirica, in una recita surreale che possa allontanare dalle nostre indagini l’apparire dell’inimmaginabile, e “verificare che i nostri incubi siano solo menzogne”. Ma il sospetto aleggerà comunque sul nostro sguardo, e non si paleserà mai in certezza finché rimarremo solo spettatori passivi.
La messa in scena si svolge su un doppio binario narrativo, sovrapponendo il racconto dell’ispettore della Croce Rossa con quello del comandante del campo, la stessa versione ricordata da diversi punti di vista. Quella costernata e amara dell’inviato, che non riesce nonostante gli sforzi ad accorgersi del tranello, e quella diabolicamente lucida del gerarca nazista, che anela con citazioni colte e raffinate a una megalomane brama di potere e conquista per il Terzo Reich.
Un muro freddo e impenetrabile fa da confine tra il nostro occhio distratto e quello vitreo dei deportati, e fa da sfondo per la proiezione dei video della visita al campo da parte dell’ispettore, al quale quasi con gelido sberleffo è stato permesso di filmarne sprazzi di vita.
In mezzo, incastrati in un limbo di celluloide, ci sono i prigionieri, del campo e del set cinematografico allestito con dovizia di particolari, sottoposti a un attento casting di selezione per meglio inscenare una realtà fittizia fatta di bambini che giocano, spensieratezze quotidiane, incontri galanti e svaghi di intrattenimento, provati e riprovati fino a raggiungere una sadica perfezione, per rimandare di qualche tempo il ben più atroce casting per le camere a gas.
“Himmelweg” è la fedele ricostruzione storica di un sabotaggio mediatico funzionale alla propaganda hitleriana, un universo virtuale in grado di offuscare le menti più preparate, un’operazione che, a distanza di settant’anni, grida ancora le sue analogie con la nostra attualità.
E nonostante alcune lungaggini narrative troppo permeabili alla prolissità, lo spettacolo – affidato a Roberto Abbati, Alessandro Averone e Massimiliano Sbarsi – sa incidere perfettamente sulle coscienze, spesso sopite e illuse nel discernimento tra realtà e finzione.
HIMMELWEG. LA VIA DEL CIELO
di Juan Mayorga
traduzione: Adriano Iurissevich
con: Roberto Abbati, Alessandro Averone, Massimiliano Sbarsi
video: Lucrezia Le Moli
costumi: Emanuela Dall’Aglio
luci: Luca Bronzo
regia: Gigi Dall’Aglio
produzione: Fondazione Teatro Due
durata: 2h 01′
applausi del pubblico: 2′ 17”
Visto a Parma, Teatro Due, il 2 aprile 2014